Cronaca
24 Febbraio 2024
I fatti che oggi vengono contestati dalla Procura risalgono all'8 e 9 marzo 2020. La protesta scatenata dalle misure restrittive imposte per contrastare il diffondersi della pandemia tra cui il divieto di visite dei parenti

Rivolta all’Arginone. Trentasette detenuti a processo

di Davide Soattin | 4 min

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Finiti a processo con le accuse - tutte in concorso - di truffa, autoriciclaggio e simulazione di reato, per loro, un 55enne della provincia di Rovigo e un 48enne ferrarese, durante l'udienza di ieri (giovedì 10 ottobre) la Procura di Ferrara - pm Isabella Cavallari - ha chiesto complessivamente la condanna a quattro anni e 3.400 euro di multa, dopo che un terzo imputato - a luglio 2022 - aveva scelto di essere giudicato con rito abbreviato davanti al gup Carlo Negri, che gli aveva inflitto un anno e mezzo di reclusione

Trentasette persone, all’epoca dei fatti tutte detenute a Ferrara, sono finite a processo con l’accusa a vario titolo di danneggiamento, resistenza a pubblico ufficiale, incendio e lesioni aggravate per la rivolta nel carcere di via Arginone, avvenuta durante i primi giorni dell’emergenza Coronavirus, quando le misure restrittive imposte per contrastare il diffondersi della pandemia, tra cui il divieto di visite dei parenti, furono il pretesto per accendere gli animi dei ristretti nei penitenziari di tutta Italia.

I fatti che oggi vengono contestati dalla Procura – pm titolare del fascicolo di indagine è Sveva Insalata – risalgono all’8 e 9 marzo 2020 e hanno come protagonisti, tra gli altri, personaggi già conosciuti alle cronache giudiziarie ferraresi. È il caso del 31enne nigeriano Egbogun Glory, soprannominato Omomo, già condannato in primo grado a sette anni nel processo alla mafia nigeriana, oltre a essere tra gli autori del tentato omicidio col machete di via Olimpia Morata. Insieme a lui anche il 41enne Afrim Bejzaku, che risultò essere tra gli ‘amici’ di Igor il Russo.

Secondo il quadro accusatorio, nella giornata dell’8 marzo, dalle 16.30 alle 21.15, all’interno della prima e della seconda sezione, usando violenza e minacce, e a volte ricorrendo a gesti autolesionistici, i detenuti avrebbero dato vita a un rivolta con disordini e ingenti danneggiamenti di vetri delle finestre, tavoli, biliardini, suppellettili di vario genere, procurandosi mazze in metallo e di legno divelte dai numerosi tavoli e stampelle, al punto da distruggere e rendere inutilizzabili, in tutto o in parte, i locali del penitenziario, finito sotto assedio.

In quella circostanza a farne le spese furono anche – e soprattutto – i poliziotti penitenziari. Alcuni vennero strattonati, bersagliati dal lancio di oggetti, insultati o minacciati. “Assassiniil virus ci sta uccidendo…i nostri familiari stanno morendo…non esiste niente…carcere di merda” avrebbero sbraitato due detenuti, altri invece, il giorno seguente, 9 marzo, prima di unirsi alla distruzione di telecamere, finestre, luci del corridoio, centraline elettriche, sistemi di telefonia e brande, incitando i compagni avrebbero iniziato ad urlare “Non mollate ora, spaccate tutto” e “Questa è Sparta, distruggiamo tutto”.

All’interno della sesta sezione, uno dei promotori della rivolta, indossando una maglietta con cui si era nascosto il viso, avrebbe appiccato un primo rogo, seguito a ruota da altri detenuti. C’era chi si occupava di indicare il luogo in cui accendere il fuoco, chi aveva il compito di reperire lenzuola, tavoli, sgabelli e coperte da bruciare con olio da cucina, chi bloccava gli ingressi con una branda e chi invece percorreva il corridoio della sezione svariate volte motivando i rivoltosi a non mollare e a continuare con forza la loro protesta, comunicando ai poliziotti penitenziari che non sarebbe finita lì e che sarebbe arrivata la fine per l’istituto.

La rivolta proseguì fino allo scoppio di un incendio che rese necessario l’intervento dei vigili del fuoco. Sempre nella sesta sezione, il 9 marzo, un detenuto di nazionalità tunisina di 34 anni avrebbe colpito al torace, gettandogli contro una mazza di legno, un agente scelto della polizia penitenziaria che stava spegnendo uno dei roghi accesi nel corso della rivolta. Il colpo provocò al secondino lesioni personali che i sanitari giudicarono guaribili in dieci giorni.

Dopo due giorni, la situazione rientrò grazie a una lunga opera di mediazione svolta dagli uomini della polizia di Stato e dei carabinieri, intervenuti con quindici pattuglie per un totale di circa quaranta uomini antisommossa, che riuscirono a convincere i detenuti detenuti a rientrare nelle rispettive celle pacificamente evitando così di dover procedere forzatamente, con possibili conseguenze per gli uni e per gli altri. La trattativa fu complessa, non priva di difficoltà, ma alla fine prevalse la ragione e il buon senso e tutto si risolse per il meglio.

Ieri (23 febbraio), a distanza di quasi quattro anni da quei fatti, l’udienza preliminare del processo relativo a quella vicenda è arrivata davanti al gup Carlo Negri del tribunale di Ferrara, che ha rinviato per permettere alle difese di avere il tempo necessario per guardare i filmati della rivolta. Stando a quanto si apprende, il ministero della Giustizia al momento non si è costituito parte civile e, rispetto ai trentasette per cui è stata fatta richiesta di rinvio a giudizio, in realtà erano trentotto ma uno è deceduto nel mentre, ci potrebbe essere qualche stralcio perché alcuni irreperibili o nel frattempo espulsi dal territorio nazionale.

Si torna in aula l’11 ottobre.

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