Colpo di scena in Corte di Assise di Appello a Bologna ieri per il secondo grado del processo per l’omicidio della 75enne Alberta Paola Storaro.
A impugnare, ai soli effetti civili, la sentenza di primo grado che aveva assolto il figlio della vittima, Stefano Franzolin, per totale incapacità di intendere e volere, erano stati i fratelli dell’imputato, Sonia e Alessandro.
Franzolin, che ora è assistito all’interno di una Rems a Reggio Emilia, aveva confessato di aver ucciso la madre la notte del 22 marzo 2021. Dopo un litigio lui era salita in camera di lei e l’aveva soffocata con un cuscino. Pare che all’origine del gesto vi fosse stato un rimprovero da parte della madre, che gli avrebbe detto “sei peggio di tuo papà”, cosa da lui percepita come una grossa offesa collegata evidentemente alla separazione dei suoi genitori, e vedendo forse minato il grande attaccamento che aveva per lei. Per questo avrebbe pensato di non farla più parlare e soffocarla.
Franzolin, preso dalla disperazione per quanto aveva fatto, aveva anche minacciato il suicidio, sventato grazie all’attività di mediazione dell’avvocato Alberto Bova che lo ha fatto ragionare e uscire dalla stanza nella quale si era barricato.
In sede di requisitoria la pubblica accusa aveva chiesto 14 anni, ma la Corte di Assise aveva sposato la tesi del vizio totale di mente.
Nei motivi di ricorso l’avvocato di parte civile, Pierguido Soprani contestava gli approfondimenti investigativi della procura e in particolare il fatto che la pubblica accusa si sarebbe accontentata delle sole dichiarazioni dell’imputato per ricostruire la dinamica dell’omicidio.
Altro motivo di appello riguardava il movente, che a sua volta portava l’avvocato a concludere per la premeditazione. Il movente andrebbe ricercato nelle frasi che Stefano disse al fratello subito dopo avergli confessato di aver ucciso la madre: “abbiamo litigato per i mav rav”. Una confessione che ricalcava quella scritta di proprio pugno nel biglietto lasciato sul tavolo della finestra in cui confessava l’omicidio.
Il riferimento al litigio, secondo la parte civile, sarebbe solo un espediente messo in atto dall’imputato per mascherare la preordinazione del matricidio.
Secondo questa tesi il litigio in realtà andrebbe fatto risalire a qualche giorno prima, il 17 marzo, quando Stefano era ritornato a Ferrara da Roma, dopo esser rimasto assente da casa tutto il giorno. Proprio allora era arrivata per posta la comunicazione della banca che lui non era riuscito quella volta a intercettare. E infatti Stefano dirà che “ultimamente è successo un altro problemino… quando sono rientrato da Roma” (dove sarebbe andato a comprare un’auto usata)”, Da lì gli insulti indirizzati al figlio e la volontà della madre di controllare i conti, cui sarebbe seguita la decisione di ucciderla.
Per la mattina del 22 marzo la madre e la sorella Sonia avevano già fissato un appuntamento con un funzionario della banca. L’esito di quell’incontro poteva determinare – sempre secondo l’accusa privata – la fine del suo stile di vita dal momento che la madre avrebbe scoperto che la banca inviava regolarmente via posta tutte le comunicazioni e gli estratti conto trimestrali e avrebbe scoperto i vari prelievi bancomat.
In sede di discussione ieri la procura generale ha concluso per il rigetto del ricorso, ma la Corte ha deciso di riformare la sentenza di primo grado, ritenendo Franzolin parzialmente capace di agire e quindi penalmente responsabile del fatto senza però condannarlo se non ai fini civili con una provvisionale di 50mila euro.
Tra 90 giorni verranno depositate le motivazioni della sentenza, ma la difesa sostenuta dall’avvocato Bova già oggi preannuncia che farà sicuramente ricorso in Cassazione.
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