Forza di intimidazione, assoggettamento e omertà. Sono questi i tre requisiti specifici che confermano in modo “indubbio” il carattere mafioso del gruppo degli Arobaga/Vikings, il clan sgominato nell’ottobre 2020 a seguito dell’operazione Signal che, eseguita dagli uomini della Polizia di Stato, lo scorso 7 giugno, aveva portato alla condanna in primo grado di diciassette persone di nazionalità nigeriana a oltre 230 anni di reclusione con l’aggravante dell’associazione a delinquere di stampo mafioso.
Secondo il collegio del tribunale di Ferrara infatti, presidente Sandra Lepore con a latere i giudici Alessandra Martinelli e Andrea Migliorelli, quella che si era radicata nel territorio ferrarese – si legge nelle 288 pagine di motivazioni della sentenza – era una “solida organizzazione” con ruoli gerarchicamente ripartiti, caratterizzata da “una rigorosa obbedienza” a principi e direttive impartite dai vertici del gruppo col rischio di incorrere in sanzioni, anche corporali e pecuniarie, per gli affiliati disobbedienti e irrispettosi.
Oltre che per queste caratteristiche – si sottolinea – il clan si era contraddistinto anche per “i violenti tentativi di affiliazione, lo svolgimento di cicliche riunioni per gli adepti, l’impiego di segni distintivi, quali il colore rosso, e di simboli (navi, asce, ancore) tipiche del cult di riferimento“. A ciò si aggiungeva poi anche l’utilizzo, da parte degli affiliati al sodalizio ferrarese, di “un linguaggio criptico per ostentare l’appartenenza al gruppo” e la presenza di “un fondo associativo precostituito mediante il versamento coattivo di somme di denaro mensili” da parte degli stessi componenti, utilizzato per “sostenere spese giudiziarie per i sodali arrestati“.
Tratto distintivo degli Arobaga/Vikings era l’impiego della violenza fisica, “anche con armi, per risolvere i conflitti sia interni che esterni al gruppo, ovvero per affermare la propria supremazia e il proprio controllo egemonico sul territorio” come è avvenuto con il tentativo di uccisione a colpi di machete di Stephen Oboh, nella guerra in atto contro gli Eiye, ridotto in fin di vita il 30 luglio 2018 in via Olimpia Morata, nel corso di un agguato che, per il tribunale di Ferrara, rappresenta – al pari della rivolta dei cassonetti – l’incipit di tutta la vicenda.
Per i giudici, però, “la spietatezza e la crudeltà” degli affiliati al clan erano tali da provocare “una forte carica intimidatoria non solo nella comunità nigeriana, ma anche in quella ferrarese“. L’obiettivo delle azioni messe in atto dai Vikings/Arobaga, a tal proposito, era quasi sempre quello di determinare “indiscriminatamente terrore e omertà nella popolazione che, di sovente, non denunciava gli abusi subiti per il timore di ritorsioni da parte dell’aggregazione criminale”.
È indubbio quindi, proseguono i giudici, che questa “concreta e diffusa capacità intimidatrice, con conseguente condizione di assoggettamento e di omertà da essa derivante” fosse lo strumento di cui si avvaleva il cult per riuscire ad “affermare il controllo del territorio e acquisire il monopolio sulle attività criminose” al punto da ritenersi un’associazione a delinquere di stampo mafioso, dedita anche allo spaccio di sostanze stupefacenti, come dimostrato “dall’importazione sistematica di ingenti quantitativi di eroina e cocaina dall’Olanda”.
Questi approvvigionamenti, conclude il tribunale, soffermandosi su questa aggravante, venivano realizzati con trattative condotte “in via esclusiva col fornitore olandese” e “plurimi viaggi effettuati, con cadenza quasi settimanale da corrieri ovulatori che poi, una volta ritornati in Italia, si occupavano anche della distribuzione dello stupefacente per le vendite e del recupero del denaro provento di spaccio, necessario a sua volta per portare a termine altri acquisti di droga“.
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