Cronaca
25 Ottobre 2023
"Ho ancora qui davanti a me la cassetta di mele che mi portò per l’occasione. Questa sera mangerò l’ultima rimasta e avrà il sapore dolce del ricordo di un amico"

L’amico Martelli ricorda Andrea Binelli e Gabriella Piccini

di Redazione | 4 min

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“Volevo bene ad Andrea”. Inizia così la lettera resta pubblica sotto forma di post dalla pagina Facebook Sportivamente – Festival della Cultura Sportiva, scritta da Andrea Martelli all’amico Andrea Binelli. Un amico scomparso nella notte tra sabato e domenica a causa del crollo della sua casa dovuto a una perdita di gas. Con lui ha perso la vita anche la compagna Gabriella Piccini.

“È stato per me un grande amico – scrive Martelli -. Vorrei dire qualcosa di lui, ma ricordarlo è difficile, perché non so da dove cominciare e mi viene solo da piangere. Comincio dal Bar della Stazione, primi anni ’70. Noi ragazzi, più giovani di qualche anno, guardavamo con ammirazione questo personaggio, campione di eleganza e di stile, che era appena tornato da Londra. La Swinging London dei Beatles e di Mary Quant, di Bobby Charlton e Carnaby Street, di King’s Road e di Harrod’s, i grandi magazzini dove si vantava di aver fatto per qualche tempo il fattorino. Grazie a lui e ai suoi racconti londinesi sembrò diradarsi la nebbia che avvolgeva le nostre esistenze, quell’aria di provincia a cui eravamo abituati”.

“Scarpe sempre lucide, vestiti alla moda, d’inverno indossava l’impermeabile di Burberry o, a scelta, un avvolgente cappotto di loden, roba fine, mai vista da queste parti. E d’estate portava il foulard alla Gigi Rizzi, il noto playboy che imperversava sui rotocalchi dell’epoca per la sua storia con Brigitte Bardot. Guidava un’Alfa Romeo Duetto rossa decapottabile, come Dustin Hoffman nel film “Il Laureato”, lui che non si laureò mai per seguire la terra e gli affari di famiglia”.

“Aveva frequentato, però, l’università del calcio, come diceva spesso per mettere sull’attenti chi lo infastidiva con discorsi banali e commenti calcistici di segno contrario ai suoi.
Aveva giocato nel Molinella o nei tornei estivi con la squadra del Bar Stazione. Poi, stanco di sfidare il mondo che non lo capiva e non gli riconosceva una superiore intelligenza calcistica, passò al ruolo di allenatore per plasmare i ragazzi a modo suo”.

“Abbiamo condiviso tante cose, dall’abbonamento al Bologna alle trasferte al seguito dei rossoblu, per i quali aveva tradito la sua Spal, ma soprattutto abbiamo condiviso (oltre all’innamoramento per un altro incompreso come il brasiliano Eneas) l’esperienza al settore giovanile del Codifiume, l’idea della prima Olimpiade dei Ragazzi e la nascita dell’US Reno, alla quale portò in dote i bambini dell’Italia Csi Molinella che aveva cresciuto con orgoglio e passione al campetto del prete. Lì al campetto, livellato e seminato a sue spese con l’aiuto del geometra Bruno Mainardi e dell’infaticabile segretario Giorgio Zagni, il prof. Binelli aveva istituito la cattedra, dalla quale dispensava la sua scienza calcistica”.

“Tu avrai fatto anche l’università del calcio – gli dicevo – pensi di capirne più di chiunque altro, ma non capisci niente di politica. Ecco il terreno dove eravamo come cane e gatto. Memorabili le nostre litigate su argomenti di carattere politico, nei quali, urlando e sbraitando, metteva dentro tutto, dalla Juve ai comunisti. Al culmine della sopportazione, gli buttavo giù il telefono, ma lui, più bravo di me, mi richiamava il giorno dopo per continuare la discussione su altri piani di confronto. Talvolta trascinava nella discussione perfino Dio, invocando, da ex ragazzo dell’Azione Cattolica, la fede senza tanti perché della madre. Ma il discorso si faceva difficile e così si tornava inevitabilmente a parlare di calcio. Provai una volta a distrarlo, trascinandolo a vedere una gara di nuoto a Riccione, ma il nuoto al coperto non faceva per lui. Troppo caldo, troppa confusione. Durò un quarto d’ora, poi uscì a fumare e non lo vidi più per tutto il giorno. Era andato in spiaggia a guardare il mare d’inverno”.

“Andrea Binelli era così. Nel rapporto con gli altri, diceva di essere come una cartina al tornasole: con lui i cretini reagivano subito. Facilmente infiammabile e confusionario, non conosceva le mezze misure. Spesso su di giri, sempre ad alta voce, con quell’inflessione ferrarese della quale si beava mia mamma, ferrarese anche lei. Ma era buono e generoso come pochi altri, sempre il primo a correre in soccorso degli amici. Una volta, citando If, la poesia di Kipling, mi raccontò come il padre gli avesse insegnato che bisognava saper stare in mezzo ai re e al tempo stesso con i contadini”.

Negli ultimi tempi le cose non gli erano andate troppo bene. La preoccupazione per la terra che non rendeva più come una volta, qualche affare sbagliato, la vista che si spegneva poco a poco, poi il dispiacere grande per la morte del figlio Antonio, dopo anni di contrasti dolorosi, che alla fine avevano logorato anche gli altri legami famigliari”.

“L’ho chiamato sabato verso sera, ma non mi ha risposto. Avremmo sicuramente parlato della Spal e del Bologna. Mi richiamerà più tardi, ho pensato, come tante altre volte. Se mai avesse voluto farlo, è stato preceduto dallo scoppio che ha mandato in briciole la sua casa. C’eravamo visti per l’ultima volta qualche giorno prima a casa mia. Ho ancora qui davanti a me la cassetta di mele che mi portò per l’occasione. Questa sera mangerò l’ultima rimasta e avrà il sapore dolce del ricordo di un amico”.

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