L'inverno del nostro scontento
23 Agosto 2023

Chi era don Giovanni Minzoni

di Girolamo De Michele | 8 min

Leggi anche

Anticipo, in occasione del centenario dell’assassinio per mano fascista di don Giovanni Minzoni, alcune pagine dall’introduzione di un libro di prossima pubblicazione.

Chi era don Minzoni? Si è detto spesso, a partire da Lorenzo Bedeschi, che non era un uomo di lettere; che non aveva grandi letture (il che non vuol dire che non ne avesse), né era un uomo di teoria. Non era, insomma, né un teologo, né un filosofo. Attenzione però a non cadere nel pregiudizio che il sapere speculativo sia «un’attività intellettuale propria di una determinata categoria di scienziati specialisti o di filosofi professionali e sistematici», come avvertiva Gramsci in apertura del Quaderno 11. Perché tutti gli esseri umani sono filosofi, cioè partecipi di una «filosofia spontanea» che consiste nell’avere una visione del mondo, che esprimono in un linguaggio che connette parole a cose, in un senso comune al proprio ambiente sociale, in un sistema di «credenze, superstizioni, opinioni, modi di vedere e di operare».

Don Minzoni aveva una visione del mondo coerente in sé, e con la prassi, cioè col suo agire nel mondo. Aveva una concezione del cristianesimo improntata al messaggio evangelico, e concorde con il cattolicesimo sociale che Romolo Murri sosteneva; sarebbe eccessivo farne un anticipatore del Concilio Vaticano II: ma aveva colto il tema della giustizia sociale presente nella Rerum Novarum, che in modo non lineare e complesso si sarebbe poi sviluppato fino all’enciclica Fratelli tutti di papa Francesco. Credeva che l’esperienza della guerra dovesse favorire un mondo più giusto, nel quale non sarebbe più stato necessario ricorrere alle guerre; era un educatore che applicava un metodo ingenuo ma efficace, fondato non sull’autorità ma sulla convinzione che ci sia qualcosa di buono nell’animo umano che l’educatore deve far emergere; credeva che il lavoro dovesse svolgersi in un ambiente egualitario, e favorire lo sviluppo di un tale ambiente: e quindi vedeva di buon occhio la formazione di leghe contadine e di cooperative; e credeva che col lavoro le donne potessero uscire dalla condizione di subordinazione cui erano vincolate, e si adoperava per difendere la gestione cooperativa di un filatoio femminile. Credeva che il suo compito fosse di stare in mezzo al popolo, e non nella canonica ad aspettare che il popolo bussasse alla porta: e se essere in mezzo a donne e uomini significava prendere la bicicletta o frequentare il bar del paese, lo faceva. Credeva nella carità, sino a donare più di quello che aveva.

Ci sono sistemi filosofici che tengono insieme tutto questo, ma don Minzoni non li praticava: però era capace di agire in base a questo sistema di pratiche valori. Non era un Croce, né un Gentile: però gli ci è voluto meno di un mese – dalla spedizione fascista di Argenta di metà aprile, all’assassinio del sindacalista e amministratore Gaiba il 7 maggio del ’21 – per capire che la violenza fascista non era un semplice mezzo, ma l’essenza stessa del fascismo, inestricabile dall’idea fascista. A confronto con i sottili distinguo con i quali per tre anni Croce ha cercato di fare i conti con la violenza fascista – «accettare e riconoscere il bene da qualunque parte sia sorto», «la eventuale pioggia di pugni utilmente e opportunamente somministrata», i «procedimenti violenti» nella serie dei quali «non si può determinare esattamente a qual punto ci si debba fermare» – anche dopo l’assassinio dello stesso don Minzoni e di Matteotti; a confronto con i sofismi di Gentile, per i quali la critica antifascista equivale alla diffamazione che equivale alla violenza, per cui non c’è differenza fra critica e uso del bastone, salvo la capacità di persuasione: «Ogni forza è forza morale, perché si rivolge sempre alla volontà; e qualunque sia l’argomento adoperato – dalla predica al manganello – la sua efficacia non può essere altra che quella che sollecita infine interiormente l’uomo e lo persuade a consentire»; don Minzoni appare come un gigante.

Augusto Monti già nel 1921 distingueva due fascismi: quello che si era proposto di «tener vivo il senso della Vittoria e della Patria», e quello «degli elementi sinistri, che si buttan dove c’è torbido senza badare al colore della bandiera che sventola sul ribollimento»; ma questi due fascismi, sottolinea Franzinelli, non sono opposti fra loro, ma si compenetrano: l’ingenuo parroco di paese, che non si interrogava sulle suddivisioni dello Spirito o sui distinguo del liberalismo o su cosa di Hegel era vivo e cosa morto, questo lo aveva compreso sin dal primo momento.

Scrivere di don Minzoni significa scrivere del fascismo e dei fascisti. Chi erano, dunque, i fascisti con cui si confrontò e scontrò don Minzoni? Una prima indicazione ci viene da Nicola Palumbi, che ha meritoriamente tenuta viva la memoria di don Minzoni ad Argenta: in un’intervista alle sorelle Ardizzoni, collaboratrici del parroco, «alla domanda perché i cattolici ricchi non finanziavano le attività di don Minzoni, risposero immediatamente: “i fascisti non approvavano le attività del parroco”. Avevano identificato, istintivamente, i “cattolici ricchi” con “i fascisti”. Di fatto, era così». Una seconda indicazione viene dalle biografie dei fascisti argentani: «Tra gli assassini di Gaiba e don Minzoni ritroviamo giovani rampolli di famiglie borghesi locali: il mugnaio, il medico, il proprietario e l’affittuario»; e poi un maestro e un ragioniere. Manca solo il figlio dell’agrario: perché Rino Moretti, il cui padre è il maggior produttore di cereali dell’area, è morto nell’assalto fascista di Portomaggiore. Dunque, l’incrocio fra il ceto medio, rancoroso verso l’esistente prima ancora che verso lo Stato liberale o un bolscevismo immaginato più che esperito, e la grande proprietà agraria. La distinzione fra un fascismo urbano, piccolo borghese e rivoluzionario, e un fascismo agrario conservatore dell’ordine sociale e degli interessi economici esistenti, è un canone interpretativo ormai consolidato: a patto di non considerare questi due fascismi opposti fra loro, e di ammettere che quello agrario prese ben presto il sopravvento. A Ferrara, a dispetto della sua biografia di piccolo borghese indisciplinato, Balbo fu il garante degli interessi dell’Agraria, al cui vertice c’era Vico Mantovani, il latifondista che per primo stipulò un vero e proprio patto con Mussolini già nel 1921.

Di quali interessi si parla, e quali erano gli interessi antagonisti delle e dei braccianti associati nelle leghe? Partiamo da una constatazione storica:

Il livello di violenza dell’offensiva fascista va misurato, più che sui morti, sulle migliaia di bastonature inflitte, sulle diecine di sedi di leghe e di abitazioni private devastate e distrutte, sulle centinaia di socialisti cacciati dalla provincia e sulle centinaia di arrestati e spesso condannati per aver reagito alle aggressioni, infine sulle diecine di migliaia di braccianti costretti alla fame per il drastico calo dell’occupazione e dei salari.

È stato calcolato che negli anni Trenta, in certe stagioni, la disponibilità economica giornaliera di un bracciante era di circa 3 lire, equivalenti a un litro di latte, mezzo chilo di pasta e sei etti e mezzo di pane: o meno, se c’era da acquistare un farmaco, fa risuolare un paio di scarpe, o far cucire un fazzoletto per ripararsi il collo dal sole estivo nei campi. Il Patto Zirardini strappato dai braccianti agli agrari nel 1920 concordava compensi di poco meno del doppio di questa cifra: arrotondando per eccesso, si può dire che i braccianti si battevano per avere sul tavolo una bottiglia di latte, un pane e un pacco di pasta in più; per il diritto a lavorare nei campi, per ogni famiglia, non tutti i giorni, ma almeno un anno su due; per un mondo nel quale le donne avessero il diritto di consumare i pasti sedute al tavolo degli uomini, e non in piedi mentre servivano, o all’angolo del camino. Questo era il mondo in cui sono vissuti don Minzoni e Balbo, Natale Gaiba e Vico Mantovani: un mondo nel quale bisognava lottare, anche con l’uso della forza, per ottenere non la Rivoluzione d’Ottobre, ma un po’ di latte, di pane e di pasta in più. Ma per l’agrario ferrarese era inconcepibile doversi privare di parte del proprio profitto per i miserabili: come un mostruoso ibrido fra il Mastro Don Gesualdo di Verga e il Gollum di Tolkien, per l’agrario ferrarese la terra, e tutto quello che vi sorgeva sopra – coltivazioni, animali, esseri umani – erano «la sua roba», «il suo tesoro» che nulla e nessuno poteva portargli via.

E Balbo? Balbo era il garante di quel mondo: era l’uomo che l’Agraria aveva letteralmente ingaggiato per millecinquecento lire al mese, perché passasse dal Partito Repubblicano a quello Fascista. Del quale era il capo assoluto, il Generalissimo incontrastato e incontrastabile.

È il responsabile della morte di don Minzoni? Karl Jaspers, tornando a insegnare dopo la caduta del nazismo, fece nel suo primo corso una celebre distinzione fra i quattro sensi della parola «colpa»: esiste la colpa giudiziaria, quella morale, quella politica e quella metafisica. Dell’ultima, che consiste nel sentirsi in colpa per il male nel mondo che le nostre azioni non riescono ad estirpare, non è il caso di parlare per il fascista: ma è una categoria che ben si adatta a don Minzoni, che si sentiva inadeguato, imperfetto, debole – come lo è ogni uomo. Ma la debolezza non è la condizione comune che ci spinge a legarci reciprocamente?

Sul piano giudiziario, possiamo affermare – già sulla base delle sentenze del 1925 – che il delitto don Minzoni ebbe un movente politico; e che i suoi esecutori e organizzatori sono i fascisti di Argenta e Ferrara; al giudizio dei tribunali, vedremo come, Balbo si sottrasse. Possiamo però affermare che fu il responsabile primo del fascismo che uccise don Minzoni, l’artefice del mondo nel quale fu ucciso; e che ebbe la responsabilità morale, se non nel sentirsi colpevole davanti alla propria coscienza – qualunque cosa significhi questa parola riferita a Balbo –, per lo stato di coercizione morale determinato dal fascismo; che, infine, ha responsabilità politica per ciò che il fascismo è stato. Ed essendo non solo le violenze fasciste omicidi e aggressioni, ma la stessa marcia su Roma un atto di sedizione, così come l’azione politica del fascismo a partire quantomeno dal 3 gennaio 1925 un colpo di Stato, cioè dei crimini, siamo legittimati a dire che Italo Balbo fu un criminale.

Grazie per aver letto questo articolo...
Da 18 anni Estense.com offre una informazione indipendente ai suoi lettori e non ha mai accettato fondi pubblici per non pesare nemmeno un centesimo sulle spalle della collettività. Il lavoro che svolgiamo ha un costo economico non indifferente e la pubblicità dei privati non sempre è sufficiente.
Per questo chiediamo a chi quotidianamente ci legge e, speriamo, ci apprezza di darci un piccolo contributo in base alle proprie possibilità. Anche un piccolo sostegno, moltiplicato per le decine di migliaia di ferraresi che ci leggono ogni giorno, può diventare fondamentale.

 

OPPURE se preferisci non usare PayPal ma un normale bonifico bancario (anche periodico) puoi intestarlo a:

Scoop Media Edit
IBAN: IT06D0538713004000000035119 (Banca BPER)
Causale: Donazione per Estense.com