
L’ex prefetto Michele Tortora
Una “ferita aperta” difficilmente rimarginabile. È il ricordo del quartiere Gad che oggi conserva Michele Tortora, prefetto di Ferrara dal dicembre 2013 al novembre 2017, sentito come testimone nell’udienza del processo alla mafia nigeriana di ieri (mercoledì 29 marzo).
“Sapevamo della presenza in quella zona di un‘organizzazione criminale che era composta in prevalenza da persone di etnia nigeriana” ha spiegato, ma “non che ci fossero i presupposti per contestare il reato di associazione a stampo mafioso” per cui oggi, in seguito all’operazione Signal, sono finite alla sbarra 17 persone.
Nonostante ciò, il prefetto ha tenuto a precisare come “il problema non sia mai stato sottovalutato, seppure il fenomeno fosse di difficile aggressione, come dimostrato dalle numerose strategie messe in campo” dai pattugliamenti, ai posti di blocco fino al controllo di veicoli e persone “esteso a 360 gradi, anche con l’aiuto di forze aggiuntive regionali e del Ministero“.
“Sapevamo che in quella zona c’era una grande piazza di spaccio, che le transizioni avvenivano di sera e in spazi aperti” ha poi aggiunto Tortora. E proprio su questo problema si è concentrata l’attività della Prefettura e delle forze dell’ordine, dal momento che altri tipi di reati non erano così frequenti. “Qualche volta – ha proseguito – si sapevano anche di casi di sfruttamento della prostituzione, mentre non risultava esserci nessuna tratta di esseri umani e nemmeno alcuna attività estorsiva da parte delle bande”.
Nel corso della sua quadriennale esperienza ferrarese, Tortora ha poi raccontato di aver ricevuto a palazzo Giulio d’Este, sede degli uffici della Prefettura, diverse persone e rappresentanti delle associazioni che con lui si erano lamentati del degrado del quartiere Giardino, Arianuova e Doro e ha ribadito della consapevolezza, da parte delle istituzioni, circa la presenza di organizzazioni criminali sul territorio. “Inizialmente c’erano anche magrebini – ha specificato – poi pian piano sono stati scalzati dai nigeriani, che sono diventati l’etnia egemone”.
“In tutte le città – ha concluso il prefetto, che ha svolto lo stesso ruolo anche a Como e Vercelli – ci sono zone delicate. Ma il Gad è sempre stato particolarmente preoccupante. Penso sia stato il più delicato da fronteggiare nella mia carriera, proprio per via di questa organizzazione criminale che era pericolosa e ben radicata sul territorio“.
Durante l’udienza è stato anche sentito Stefano Pontesilli, già ambasciatore italiano in Nigeria, che, davanti al collegio giudicante – giudice Sandra Lepore presidente con a latere Alessandra Martinelli e Andrea Migliorelli -, ha deposto sulla base della propria esperienza pluriennale istituzionale, soffermandosi sul funzionamento delle cult gang nigeriane.
“Alcune – ha spiegato – sono riconosciute come organizzazioni criminali e vietate, altre no perché sono viste come confraternite universitarie che sono regolarmente iscritte e accettate. E anche per questo motivo è difficile trovare il confine tra legalità e illegalità. Hanno inoltre anche un ruolo di stabilimento d’ordine laddove lo Stato e le forse dell’ordine mancano”.
Una mancanza, questa, che fa sì che i non appartenenti a quei gruppi abbiano paura di questi gruppi “e finiscano per accettare i soprusi” ha poi affermato Pontesilli che, durante la propria deposizione, ha anche raccontato di una lettera inviata all’ex ministro Marta Cartabia e scritta da una persona, appartenente a queste cult gang, che riferiva di essere stata ingiustamente accusata in Italia.
Nello specifico, in quella missiva, dal carcere, lo scrivente chiedeva un risarcimento danni per un errato processo che era stato fatto a lui e ad altri conoscenti, imputati a vario titolo in processi di mafia nigeriana solamente perché appartenenti alla Green Circle, una delle tante cult gang presenti attualmente in Nigeria.
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