Attualità
13 Gennaio 2023
Il figlio Enrico: "Mi ha insegnato l’onestà e il coraggio di ribellarsi; papà mi ha fatto iniezioni di giustizia"

La bandiera anarchica per l’ultimo saluto a Gian Pietro Testa

di Marco Zavagli | 4 min

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(foto di Riccardo Giori)

C’era una bandiera sul feretro. Colori rosso e nero e la A cerchiata. L’ha posata, con l’unico gesto cerimonioso che si è concesso, Enrico Testa. È iniziato così, con la bandiera anarchica sopra il legno della bara, l’ultimo saluto – rigorosamente laico – a Gian Pietro Testa.

In tanti si sono riuniti nel tempio della cremazione della certosa per portare l’ultimo saluto e asciugarsi gli occhi davanti al “giornalista e scrittore”. Così riportava la targhetta funebre. Mancava “poeta”.

A rompere gli indugi è stata Riccarda Dalbuoni, giornalista e allieva del maestro che fu. A lei spetta il compito di leggere il messaggio scritto dal figlio Enrico, anche lui – non è un caso del destino – giornalista (è caporedattore di Raisport).

“Dell’amore e della gratitudine”. Inizia così l’estremo saluto da figlio a padre. “Avevo circa tre mesi. Mi raccontava papà che in quel betanotrofio di Milano c’erano diversi sfortunati e tristi bambini. Uno solo andò incontro a lui e alla mamma con un sorriso. Ero io”. È il racconto di come Enrico venne adottato da Testa e sua moglie. E “già qui c’è, appunto, una gratitudine immensa e infinita nel vero senso del termine”. Ed Enrico diventò “un Testa”, perché “la mia famiglia vera è stata quella che mi ha cresciuto. Chi non sa dice che assomiglio a papà. Ovvio. Nelle espressioni, nelle idee, nel modo di fare. Credo di essere stato fortunato come pochi al mondo”.

Il racconto prosegue con la “scommessa impossibile” di far proseguire il mestiere dello scrivere al figlio, lui, che aveva “una carriera scolastica da galera”: “un all-in senza paracadute, per stima, certo, ma soprattutto per amore. Per il resto mi ha dato tutto ma giustamente senza regalarmi niente”.

Il figlio ricorda, sempre per voce di Riccarda Dalbuoni, i regali avuti dal papà: a parte il subbuteo, “che poi diventò una mia fissa”, i veri regali sono stati gli insegnamenti: gli ha insegnato a scrivere, ma soprattutto ha insegnato “l’onestà e il coraggio di ribellarsi; papà mi ha fatto iniezioni di giustizia, cosa che sento dentro come poche altre, papà mi ha insegnato la fantasia”.

E la memoria corre a quelle domeniche “quando lavorava a ‘Il Giorno’ ed era di riposo: c’era un rituale fisso che ricordo come fosse oggi. Mi prendeva nel lettone a Monza, mi faceva chiudere gli occhi e mi raccontava che eravamo nel Paese delle farfalline. Guarda Chicuiu (mi chiamava così e io lo chiamavo Papaiu e manco so perché) vedi quella farfalla verde sul fiore giallo. E io vedevo davvero sia la farfalla sia il fiore…”.

Il ricordo si ferma all’arrivo a Ferrara, “la sua città”, dove “mi ha regalato un’adolescenza serena e riparata”. Serena e riparata anche quando un’auto tentò – “ma solo per spaventare papà” – di investirlo.

“Vivemmo mesi con i carabinieri davanti alla porta – prosegue la lettera – ma non so perché non mi sono mai preoccupato. Anzi, lo so. Perché papà decise di fatto di abbandonare la sua carriera per proteggermi. L’ho capito tardissimo”.

Poi gli ultimi anni, quando “non era [più] papà. Era diventato, anche se non con me, irascibile, testardo, demoralizzato, preoccupato per me e per il lavoro, cosa alla quale teneva tantissimo. La morte della sua Elettra lo ha ucciso dentro, ma ancora di più lo ha ucciso il non arrendersi al tempo che passava e che passa. Così si è lasciato andare piano piano”.

Perché “papà voleva vivere come ha vissuto e invece non viveva più. A parte il giornalismo, i libri e altro, papà dipingeva e da parecchi anni era incazzato con il mondo. Papà detestava il capitalismo, papà era molto più anarchico che comunista, papà non sopportava l’arroganza del potere e il potere a prescindere”.

E, pensando a “quell’ultimo recente sorriso accennato e quegli occhi pieni d’amore ma anche di consapevole addio che mi hai ‘puntato’ all’ospedale”, Enrico lascia il padre: “dovunque sei non ti incazzare, per una volta pensa a quello che hai fatto perché il mondo non andasse in questa direzione. E sempre grazie. Ti amo”.

Sale sul pulpito a parlare la nipote, Stefania Cigarini, anche lei giornalista. Il primo ringraziamento è “per avermi insegnato il giornalismo, quello vero”. Guardando il feretro, i fiori e la bandiera sopra, Cigarini confessa che “oggi non mi sento triste, magari lo sarò domani, Perché con te, in 35 anni, non sono riuscita a esserlo nemmeno un giorno”.

E’ il momento del congedo. Fuori dal tempio sciorinano i presenti. Si notyano le figure dell’ex sindaco Tiziano Tagliani, dell’architetto Andrea Malacarne ex presidente di Italia Nostra, Di Barabra Diolaiti e Sergio Golinelli dei Verdi, ex assessori in Comune e Provincia, e dell’attuale assessore Andrea Maggi.

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