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Chi era, è, e continuerà ad essere Luca Serianni, e cosa rappresenta per la conoscenza critica della lingua italiana, non devo certo dirlo io: un articolo nei giorni scorsi, su uno dei massimi quotidiani nazionali, impiegava una quindicina di righe per illustrarne il curricolo.
Mi limito a un ricordo personale.
Era la seconda settimana di novembre del 2010; una libreria romana aveva organizzato un dibattito sulla cosiddetta riforma Gelmini. In attesa dell’orario d’inizio (anche Serianni aveva il vizio gentile di arrivare in anticipo agli appuntamenti: un vizio raro, purtroppo), dopo esserci salutati, gironzolavamo fra i libri. Arrivò mio cognato, tifoso romanista, e ci mettemmo a scherzare sulla conferenza stampa della precedente domenica dell’allora allenatore della Roma Claudio Ranieri, che aveva baccagliato con i giornalisti dismettendo il suo aplomb britannico e dando voce al suo essere romano – anzi, testaccino – con una battuta fulminante: “Ma che ve state a’ attacca’ ar fumo d’a pipa?”
Al sentire la battuta Seranni alzò la testa, si girò vero di noi (mi sembra di ricordare che avesse la pipa e se la fosse tolta di bocca), si intromise cortesemente nella chiacchierata familiare, si fece ripetere la battuta, chiese se era caratteristica del Testaccio, e se la appuntò su un taccuino che aveva immediatamente estratto dalla tasca della giacca.
Tutto qui: Luca Serianni, forse la massima (senz’altro una delle massime) autorità in materia di lingua italiana, le parole le raccoglieva una per una dalla strada, armato di penna e taccuino, tal quale le parole elevate dei letterati.
L’autorevolezza dall’alto e la produzione dal basso della lingua si incontravano, in quella battuta annotata sull’agendina di lavoro, nel pari valore retorico attribuito dall’interprete e atteso dal parlante. Come scrisse David Foster Wallace (recensendo un dizionario!), questo è il massimo di democrazia che possiamo attenderci, oggi.
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