I segni dell’incontro con “Il mostro” se li porta addosso. E soprattutto dentro. Marco Ravaglia oggi ha 58 anni. I quattro colpi di pistola che gli ha esploso contro Igor il russo non sono stati sufficienti a uccidere questo gigante buono. Ma le ferite hanno lasciato strascichi. Era in pattuglia con Valerio Verri quell’8 aprile del 2017. Durante un servizio antibracconaggio incrociarono e inseguirono un uomo su un pick up bianco. L’abbigliamento in stile mimetico ricordava quello di un pescatore di frodo o di un cacciatore.
Ravaglia, agente della Polizia provinciale, scende dall’auto per andargli incontro. Igor, alias Igor Vaclavic alias Norbert Feher e mille altre identità, prende la pistola e gliela scarica contro. Un colpo gli fa esplodere l’omero, un secondo lo prende alla spalla, il terzo gli recide il plesso brachiale e il quarto entra dal rene e gli attraversa colon e intestino per fermarsi nel polmone, a pochi centimetri dal cuore.
Siamo al quinto anniversario dell’omicidio di Valerio Verri. Ma immagino che il pensiero non vada al suo collega di pattuglia solo in queste occasioni.
No, assolutamente. Il pensiero è quotidiano, può andare dalle 50 alle 100 volte in un giorno. A volte il ricordo arriva da solo, a volte può essere una qualsiasi cosa che mi fa riportare a quei momenti. E ho tutta la parte lesionata che mi fa più o meno male. A ogni scossa più forte del solito o in quelle rarissime volte che non avverto dolore il pensiero è costantemente diretto a quel giorno.
Lei ha riportato delle lesioni permanenti.
Ho la paralisi del plesso brachiale. I movimenti del braccio destro limitatissimi. Posso mescolare l’acqua in un secchio, anche se è calda perché la sensibilità è quasi nulla. Se tengo appoggiato il braccio riesco a scrivere, ma per poco perché mi stanco subito.
Pensava di morire quel giorno?
L’ho pensato in due circostanze diverse. La prima mentre ero a terra e il pensiero è stato… leggero. Non è stato un momento di struggimento. Ho pensato che proprio ora, mentre avevo trovato una persona con la qual sto così bene, mia moglie Cinzia, proprio adesso che stavamo sistemando tante cose, che tutto sembrava perfetto, mi tocca di doverne farne a meno e abbandonare tutto questo.
Poi, quando Igor si è allontanato in macchina, ho dovuto fare mente locale: chi era, com’era vestito, avvisare le forze dell’ordine. Mi sono alzato in piedi, sono riuscito ad arrivare sulla strada e fermare la macchina di quella santa donna che mi ha soccorso con due bambini piccoli a bordo. Per fortuna mi conosceva e, nonostante fossi ricoperto di sangue, mi ha riconosciuto, era una mia concittadina. Ho fatto quindi le prime chiamate a carabinieri, 118 e al mio comandante. Poi mi ha chiamato mia moglie; mi aspettava perché dovevamo andare a prendere un paio di scarpe. Quando le ho detto cos’era successo pensava fosse uno dei miei soliti scherzi. Perché l’ho sempre presa così la vita, cercando di sdrammatizzare tutto, da quando a sette anni ho peso mio padre. Quando Cinzia ha capito che non era uno scherzo si è lanciata lì in auto ed è arrivata prima di tutti. È scesa di corsa dall’auto, si è inginocchiata accanto a me, mi ha stretto al suo grembo… Io ho pensato «adesso posso morire. Muoio nel posto più bello del mondo, tra le tue braccia».
Poco dopo lei mi ha tolto il cinturone. Cominciavo a sentire un dolore fortissimo alla pancia. Era l’emorragia interna. In quel momento suona il telefono di mia mogie. Era mia zia che ha visto Cinzia passare a tutta velocità. Poi le sirene… Si era preoccupata. Chiede cosa sia successo. «Hanno ferito Marco». Mia zia è la mia seconda mamma, non volevo farla stare in pensiero. «Tranquilla mi hanno ferito al braccio, non è niente». Era il minimo che potessi dirle, anche se comunque per quella ferita ci sono voluti cinque mesi prima di uscire dall’ospedale.
A un certo punto, mentre ero ancora tra le braccia di mia moglie, sentivo che le forze mi stavano abbandonando. È la seconda volta che ho pento di morire. In quel momento ho sentito il rumore delle pale dell’eliambualnza. Come nei vecchi film con John Waine ho pensato agli squilli di tromba della cavalleria. «Marco cerca di tenere botta che forse ce la facciamo anche questa volta».
Quando ha capito che Valerio non c’era più?
Quando Igor se n’è andato ho cercato di raccogliere tutte le forze per fare qualcosa, per reagire. Non avevo capito subito che mi avessero sparato. Quando mi sono rialzato avevo la gambe barcollanti e ho dovuto prendere in rapida successione delle decisioni. Quando mi sono alzato non l’ho visto. Gli ho detto «tieni botta, vado a chiamare i soccorsi e vedrai che andrà tutto bene».Ho sentito il rumore di un veicolo. E nel Mezzano, di sabato, non c’è quasi mai nessuno. Ho provato a raggiungere la strada con il braccio rotto. Nella seconda macchina che si è fermata c’era un ex collega della Polizia Provinciale. È andato a vedere come stava il mio compagno di pattuglia. quando è tornato gli ho chiesto come stesse Valerio. Lui ha scosso la testa, lì ho capito.
Come ricorda Valerio?
Era una persona con la quale l’amicizia vera era scattata subito dopo che abbiamo iniziato a frequentarci più assiduamente. Valerio era un uomo dolce. Si rideva, si scherzava, ci si prendeva in giro. Era un amico”.
Quale fu la sua reazione all’arresto di Igor?
Quella mattina di dicembre stavo andando a fare fisioterapia. Guidava mia moglie, perché non avevo ancora la patente per portatori di handicap. Mi chiamò una collega. Mi disse che l’avevano catturato. Non si sapeva ancora del triplice omicidio. Non ho provato gioia. Mi sentivo più sollevato perché se fosse stato ancora a piede libero avrebbe potuto causare altri lutti. Ma in pochi secondo sono scoppiato in un pianto ininterrotto quando ho saputo che aveva ammazzato altri due colleghi della Guardia civil e un cittadino innocente.
Ora Igor sta scontando l’ergastolo. In quella cella capirà mai quello che ha fatto?
Non lo so. Mi auguro che riesca a capire un giorno tutto il male che ha causato.
Prova odio?
No. Io sono stato sempre contrario alla pena di morte. Ho fatto mia una frase di Liliana Segre: «Io non perdono e non dimentico, ma non odio». L’odio è un sentimento che ti avvelena. Spendi tanto, a volte tutta la tua energia, nel nutrire in questo sentimento. La vita merita altro.
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