Attualità
28 Gennaio 2022
La persecuzione europea ha radici profonde: parte dal Medioevo, e ad oggi non si è mai placata

Samudaripen, il genocidio dimenticato di rom, sinti e camminanti

di Redazione | 3 min

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(foto di Fiorello Miguel Lebbiati)

di Morena Pedriali

Karl Stojka, poeta rom sopravvissuto ad Auschwitz diceva che “noi rom e sinti siamo come i fiori di questa terra, ci possono calpestare, ci possono eradicare, gassare, ci possono bruciare, ci possono ammazzare; ma come i fiori noi torniamo comunque sempre.”

Sembra un monito nel vento, una ‘rugimos’ (in romanes, preghiera), spesso inascoltata, che ripercorre tutta la storia del nostro popolo. Sembra una canzone sottile e fragile come la corda di un violino, che continua a scavarci gli occhi.

Samudaripen, in romanes, significa “tutti morti” e indica il genocidio nazifascista perpetrato ai danni delle comunità romanì d’Europa.

Si conta che circa un milione di rom trovarono la morte nei campi di concentramento, ma il numero rimane incerto dato che, nella maggioranza dei lager, non esistevano, come per gli altri prigionieri, registri di morte.

La persecuzione europea di rom e sinti ha radici profonde: parte dal Medioevo, quando, in fuga dall’India, arrivarono in Grecia, Germania, Francia e Italia e ad oggi non si è mai placata. Così come i pregiudizi utilizzati per giustificarla: ladri, stregoni, assassini, asociali, nomadi per scelta, la deumanizzazione del popolo rom iniziò molto presto.

Nello specifico, il regime nazista giustificò il genocidio di rom e sinti con la genetica razziale, alimentata anche dagli stereotipi sopra citati. Nel Volksgemeinschaft, la comunità di popolo ariana perfetta, non c’era spazio per rom, sinti e camminanti, considerati figli di un’originale “razza ariana” poi contaminatasi con le migrazioni al punto da essersi auto-instillata, secondo la teoria nazista, il gene stesso del crimine nel sangue.

Dopo le leggi di Norimberga, nel 1936, il ministro dell’Interno Wilhelm Frick, in una comunicazione interna destinata alle amministrazioni locali, specificò che “erano di sangue estraneo rispetto alla specie tedesca, oltre agli ebrei, soltanto gli z*ngari.”

Nell’Agosto dello stesso anno, venne istituita la Centrale di ricerca di igiene razziale e biologia della popolazione, diretta da Robert Ritter ed Eva Justin, i quali iniziarono a condurre esperimenti su rom e sinti, spesso prelevandone forzatamente i figli, per poi rinchiuderli in campi o manicomi.

E fu proprio su rom e sinti che, nel campo di Auschwitz, Mengele condusse la maggior parte degli esperimenti, in particolare sui bambini. Cercava, infatti, attraverso la scienza di separare il presunto gene del crimine dal sangue delle vittime, o di cambiarne chimicamente l’aspetto perché assomigliassero al prototipo di tedesco ariano.

Se pensiamo, tuttavia, che tutto questo sia successo lontano e che l’Italia non ne sia coinvolta, è doveroso ricordarci che proprio qui, nel nostro Paese, furono costruiti campi di concentramento i cui soli internati, inizialmente, erano proprio rom e sinti, come Berra (Ferrara), Prignano sulla Secchia (Modena), Torino di Sangro (Chieti), Chieti, Fontecchio negli Abruzzi.

Campi mai riconosciuti ufficialmente, a guerra finita, mai inseriti nei libri di storia, nonostante proprio lì furono internati e poi fuggirono rom e sinti che si unirono, quindi, alle file della Resistenza, come i Leoni di Breda Solini.

Non stupisce se si pensa che l’Italia non ha ancora riconosciuto ufficialmente nemmeno il Samudaripen stesso, né la minoranza romanì e neppure la lingua, il romanes. Non stupisce se si pensa alla violenza della discriminazione ormai istituzionalizzata presente nel Paese, uno dei più problematici in Europa a questo riguardo. Paradossale, se si pensa che l’Italia è anche uno dei Paesi in Europa dove rom, sinti e camminanti sono presenti in minor numero (circa lo 0.2% del totale della popolazione).

Proprio negli ultimi mesi, anche riguardo a questo, è nata la campagna social del movimento Kethane, #FORUSITCONTINUES, “per noi continua”, perché per noi il genocidio continua ancora oggi.

Ci auguriamo, come diceva Stojka, che da questi fiori nasca il cambiamento e che, presto, non sia più concesso dimenticare.

Fonti storiche: UpreRoma HOME | upreroma

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