di Michele Govoni
Nei suoi oltre trent’anni di attività, il Premio Italo Calvino ha permesso a moltissimi scrittori esordienti di far conoscere le proprie opere al grande pubblico. La conseguenza è stata che anche nomi di grido della letteratura italiana di oggi siano passati dal “Calvino” per iniziare un’attività editoriale partita in sordina e divenuta, poi, primaria nel contesto letterario nazionale.
Tra le opere d’esordio che il Premio Calvino, nella sua edizione 2020, ha contribuito a far pubblicare, “Il valore affettivo” dell’esordiente Nicoletta Verna, publicato da Einaudi, costituisce senza dubbio un interessante caso letterario.
Romagnola, classe 1976, Nicoletta Verna costruisce un romanzo nel quale interiorità ed esteriorità dei personaggi e delle vicende narrate sono in relazione continua e mai contingente.
La narrazione è affidata alla voce di Bianca, donna bellissima e compagna di Carlo, cardiochirurgo di fama internazionale.
Bianca vive, però, nel ricordo e nella continua riproposizione di Stella, sua sorella maggiore morta in circostanze mai del tutto chiarite all’età di quattordici anni.
Da quella vicenda luttuosa, che ha segnato la fine della tranquilla e normale vita familiare e soprannominata nella narrazione come la disgrazia, prendono vita le sotto-trame del romanzo, abitate da una schiera di personaggi tutti ben tratteggiati (ad iniziare dalla figura materna di Bianca e Stella dal cui primo suicidio prende avvio il romanzo). Grazie a queste e al filone principale su cui esse si innestano, Verna costruisce una rete di rapporti multiformi e ambivalenti con i quali il lettore si trova di volta in volta a rapportarsi scoprendo elementi ed evidenziando dettagli e significati dei personaggi. Verna affida ad una penna cruda e inflessibile gesti, ossessioni (esemplare il rapporto di Bianca con la spazzatura), rapporti di forza e delusione, aspettative non accontentate e sorprese inaspettate, in un conglomerato di sentimenti e ossessioni che possono enuclearsi nell’analisi di un senso di colpa crescente che sembra risolversi solo nel finale.
La fila si chiudono, infatti, nel finale in cui la scrittrice, in maniera sapiente e calibrata non solo non risparmia un colpo di scena del tutto inaspettato, ma ci mette di fronte ad una resa dei conti sia tra gli stessi personaggi che negli stessi personaggi, in un crescendo che non sfocia mai in un’apoteosi, ma in una trasformazione (con tratti negativizzanti).
La narrazione è tesa, scarna, spesso cruda. Coinvolgente la trama e determinante l’ambientazione romana che, nonostante sembri restare costantemente sullo sfondo delle vicende, si fa invece valida co-protagonista narrativa, in costante contrasto con la produttiva e semplice campagna brianzola dove la vicenda si svolge inizialmente.
Un romanzo in cui si entra e da cui ci si fa letteralmente travolgere e la cui lettura si fa arricchente pagina dopo pagina.
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