Attualità
3 Ottobre 2020
Al Comunale una discussione su George Floyd, Black Lives Matter e xenofobia

A Ferrara si parla di razzismo con Internazionale

di Redazione | 4 min

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Parte il Festival di Internazionale e lo fa con uno degli argomenti che nell’ultimo periodo, tralasciando la pandemia, ha coperto maggiormente le pagine dei giornali. Si parla di razzismo e del movimento scaturito dall’uccisione di George Floyd, Black Lives Matter. “Siamo qui – spiega la scrittrice Claudia Durasanti che conduce l’incontro – per evitare il feticismo dell’attualità e collocare certi fenomeni in una durata più lunga”.

Il titolo dell’incontro è “Vite che contano, razzismo, antirazzismo e memoria storica. Il movimento Black lives matter in Italia e in Europa”, e per parlarne sono state invitate e invitati le scrittrici Djarah Kan e Espérance Hakuzwimana Ripanti, la giornalista Oiza QueensDay Obasuyi, lo scrittore Abdourahman Waberi e il giornalista Gary Tounge. Assente per motivi personali l’attivista Assa Traoré, sorella di Adama Traoré, ucciso nel 2016 dalla polizia francese.

Si parte da Angela Davis, attivista statunitense, e da una sua risposta a una intervista in cui le veniva chiesto come si identificasse. “La Davis – spiega Claudia Durasanti – spiega di identificarsi come comunista, internazionalista, creatrice di comunità, pro working class e queer”. Chiede così agli ospiti di spiegare come ci si identifica in una chiacchierata che porta a una profonda riflessione sull’identità, una riflessione antropo-storica che tenta di collocare nel suo contesto odierno il razzismo che permea la società.

“Personalmente – dice Djarah Kan – il modo in cui mi percepisco cambia molto spesso. L’identità non è monolitica”. “Io – aggiunge – mi definisco una giovane donna nera del sud Italia”. E così, con specificità diverse, anche gli altri ospiti presenti esplicitano uno dei concetti fondanti dell’antropologia e delle scienze sociali parlando di identità. Un’identità non immutabile e direttamente connessa alla società e alla cultura con la quale ogni giorno si ha a che fare.

Da George Floyd si passa ad altri fatti, meno eclatanti, che permeano la società. Si tratta di un “antirazzismo che mi ha fatto innervosire” dice Djarah Kan riferendosi ai movimenti Balck Lives Matter. Perché, aggiunge, “è un problema che si nota solo quando viene dall’altra parte del mondo, io vengo da Castel Volturno dove sono stati uccisi nove migranti e questo non ha causato l’indignazione che ha causato Floyd”. “Non c’è interesse a parlare di questa – aggiunge – cosa perché la politica è da anni che ci fa campagna elettorale”. Infine, conclude, “non si deve arrivare alla morte di qualcuno per arrivare all’antirazzismo ed è per questo che io ho rifiutato quell’antirazzismo con tutte le mie forze”.

Espérance Hakuzwimana Ripanti, che si definisce “figlia di quello che ho letto”, si chiede “in quanti rimarranno dopo questa ondata” per poi indicare un annoso problema. “Quante persone tra questo pubblico – chiede – non sono bianche e quante sono donne?”. Pochi, pochissimi e, aggiunge “come in questo teatro accade nelle redazioni dei giornali, nelle imprese ma anche nelle Ong”. Il razzismo pervade la società con piccole sfumature, “il razzismo – spiega Oiza QueensDay Obasuyi – non è solo il partito xenofobo che chiude i porti, molti problemi sono endemici e non sempre riconoscibili”. “Pensiamo a come vengono trattati i migranti – aggiunge – nei centri approvati tutti da governi democratici” questo ci mostra come il “razzismo sia qualcosa di trasversale, non si è esenti anche se si vota il tal partito di sinistra”.

“Qui siamo alle prese con un tema grosso, la storia europea e Usa – spiega Gary Younge –. Se guardi la storia ti accorgi che gli atti più atroci di razzismo si sono svolti all’estero, nelle colonie. Così come dall’estero si sono mossi numerosi leader che hanno mosso la bandiera dei diritti civili come Gandhi”.

C’è, secondo Younge, “un’amnesia collettiva degli europei nei confronti della propria storia”, si parla al plurale e si inglobano nel noi collettivo gli avvenimenti come la vittoria della guerra o quella del mondiale. Quando poi si “parla dei paesi colonizzati e delle brutalità compiute, il noi sparisce”, diventano atti compiuti da altri uomini in un’altra epoca.

Secondo Abdourahman Waberi “bisogna cominciare a lavorare sui dettagli”, sulle piccole cose che permeano la società. “Mia nonna diceva: bisogna cominciare salutando gli alberi. Solo da adulto ne ho compreso il significato”.

Gli alberi sono infatti ciò che dà a tutti ossigeno e “ora, in tempi di Covid credo che il significato di questa frase sia più vivo che mai mostrandoci come siamo tutti interdipendenti”. “Se vogliamo – dice collegandosi al discroso di Younge – che tutti i corpi vengano rispettati occorre che siano rispettati i paesi in cui questi si trovano. Fino a che i nostri paesi verranno considerati come una quantità trascurabile mancherà il rispetto che serve”.

Un rispetto, aggiunge che è strettamente collegato alla classe sociale da cui si proviene ma anche alla potenza economica del proprio paese di origine.

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