di Lorenzo De Cinque
Immigrazione, immigrazione, immigrazione. Quante volte avremo sentito nominare questa parola negli ultimi mesi? Sappiamo tutti che si tratta di una tematica tanto complessa quanto resa in modo superficiale. I politici e i media, infatti, talvolta fanno apparire le situazioni molto più semplici di quello che sono in realtà e una situazione così complicata è impossibile da riassumere in un singolo capitolo.
A far chiarezza sui tanti tabù sul tema un incontro denso di spunti e punti di vista che ha visto l’avvicendarsi degli interventi di Lorenzo Bagnoli, giornalista investigativo Irpi, Sara Prestianni, responsabile immigrazione di Arci nazionale, Albert Chaibou di “Alternative espaces citoyens” e Christian Jakob di “Die Tageszeitung”. Una tavola rotonda molto ricca e coordinata dalla giornalista di Internazionale Annalisa Camilli.
Una situazione così intricata non poteva che essere studiata con un’importante inchiesta di Lorenzo Bagnoli che, avvalendosi anche di lavori di altri suoi colleghi, è riuscito a ricostruire i retroscena che si celano dietro politiche apparentemente solidali. Il discorso si concentra attorno alla figura di un trafficante libico, Al-Bija, che Bagnoli definisce “fondamentale al fine di capire l’azione della mafia libica”. Il luogo dove invece si concentra l’incredibile raggiro è Zawiya, famoso centro economico libico, importante soprattutto per una raffineria attorno alla quale si muove un clan mafioso gestito da Mohammed Koshlaf.
“Il loro modo di arricchirsi – spiega il giornalista – gira intorno al traffico di gasolio e di migranti. Il primo doveva arrivare al porto per essere venduto ad un’altra società criminale mentre per i secondi si trattava di una vera e propria detenzione in un compound di Zawiya”. Qui entra in gioco Al-Bija che addirittura “decideva chi dei migranti poteva partire e chi no”.
La storia di questi criminali, però, si intreccia anche alle vicende europee quando i flussi migratori iniziarono a farsi più massicci. In questo senso, nel 2015 venne organizzato un summit a La Valletta a cui presero parte Stati europei e Stati africani, al fine di trovare una soluzione all’immigrazione crescente con la predisposizione di fondi atti a limitare questo fenomeno. “L’Italia – continua Bagnoli – ha creato una rete di legittimazione di criminali. Ha aiutato la Libia nella predisposizione di una SAR Zone, un pezzo di mare in cui avere autorità. L’obiettivo era responsabilizzare la Libia affinché si occupassero dei loro migranti ma il punto è che non si parla mai di chi gestisce questi traffici. Il mare ora sarà sempre gestito da persone come Al-Bija e ora più che mai c’è bisogno di affrontare questo tema”.
Di questi fondi ne parla in particolare Sara Prestianni che sottolinea come “ci sia una mancanza assoluta di trasparenza sul loro utilizzo”. Il pilastro di queste nuove politiche, dal 2015 è la cosiddetta “esternalizzazione”, ossia la “richiesta di collaborazione con i Paesi d’origine dei migranti”. A tal fine, fondi del valore totale di 91 milioni di euro vengono utilizzati dall’Unione Europea per convincere gli Stati africani ad accettare i propri cittadini espulsi. “Questo – sottolinea la Prestianni – ha portato l’Italia a collaborare con dittature che molto probabilmente hanno usato i finanziamenti per repressioni civili”. Un fatto molto grave se si pensa che questo “abbia condotto i migranti a intraprendere altre strade più lunghe e pericolose”.
Albert Chaibou, invece, riporta la sua esperienza personale direttamente dal Niger. “Se prima del 2015 – racconta il giornalista – il Niger era un semplice Paese di transito, ora invece ha assunto la triplice funzione di luogo di partenza, transito e arrivo. L’Unione Europea si è interessata molto a nostro territorio affinché costruissimo una frontiera nel deserto perché da noi passano persone del Senegal o del Mali il cui obiettivo è arrivare in Libia, Algeria o in Europa”.
Il volto del Niger ad oggi è notevolmente mutato. Come ci racconta Chaibou, “il Paese si è fortemente militarizzato per contenere i migranti e sono frequenti attacchi di terroristi dei Paesi vicini”. Nell’ambito di questa politica di controllo, nel 2015 è stata emanata una legge sul traffico clandestino di immigrati che – specifica il nigerino – ha stabilito pene di reclusione di 10 anni per coloro che lasciavano uscire dai confini persone non residenti nello Stato”. Altrettanto disastrose sono state le conseguenze sul piano economico-sociale, infatti “molti dormitori che accoglievano persone di transito sono stati chiusi, c’è stato un arresto di massa di “trafficanti” e tanti veicoli bloccati. Questo ha portato ad un vero e proprio moltiplicarsi di attività clandestine”.
La militarizzazione dei Paesi africani è stato uno degli aspetti che ha contraddistinto la ricerca di Christian Jacob che, negli ultimi tre anni, ha condotto uno studio proprio sul processo di esternalizzazione e militarizzazione dell’Africa. In particolare, partendo dai due fondi attivati per la questione immigrazione, è riuscito a tracciare un duplice bilancio. “Una parte minoritaria è stata destinata allo sviluppo di Paesi terzi mentre una grossa fetta è stata investita su Niger e Sudan per infrastrutture di controllo e da qui la nascita di una vera e propria industria militare”.
Allo stesso tempo, “sono state sviluppate tecnologie basate su dati biometrici al fine di una più rapida identificazione. Ora i Ministri dell’interno possono identificare le persone mediante una ricca banca dati”. Un altro interessante punto è che “non tutti i fondi sono stati spesi in Africa perché la costruzione di determinate tecnologie è stata fatta in Europa per poi essere esportata”.
L’immigrazione, quindi, si tratta di mosaico in cui si intrecciano luoghi, persone e interessi diversi. Trovare una soluzione a questo fenomeno può sembrare molto difficile, ma avere già un quadro chiaro di tutta la situazione non può che essere un buon punto di partenza.
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