Esco di casa.
Il termometro in giardino segna 43 gradi Celsius, conquistando ancora una volta Ferrara il poco invidiabile primato di città più calda d’Italia.
Ciononostante affronto la prima corsa al rientro dalle ferie con piacere, godendone il sapore particolare, tra la nostalgia per i panorami da poco abbandonati e il piacere di ritrovare luoghi ben noti.
Come mia personalissima tradizione, dopo un periodo di distacco dalla città mi impegno nel giro completo della mura, come se la circonferenza irregolare che tratteggio con le mie falcate mi permettesse di riprendere possesso del paesaggio urbano e di controllare se tutto è ancora al suo posto o se ci sono novità.
Oggi Luca non è a Ferrara e quindi il nostro solito abbraccio senza smettere di correre (un’arte che si mette a punto solo dopo anni di esperienza) è rimandato.
Affronto la breve salitella che mi porta al sentiero sopraelevato di via dei baluardi, faccio il saliscendi obbligato all’altezza di via porta d’amore domandandomi quando mai finiranno i lavori di recupero della antica apertura, supero il ponte sopra via quartieri e sono in piazza travaglio.
Non c’è anima viva, fatta eccezione per qualche sparuto turista che si fa trasportare sbandato dalle infradito, imbambolato dall’afa.
Prendo per i rampari San Paolo e mi sto domandando se stavolta riuscirò a fare davvero il percorso netto, ossia completare il periplo senza incrociare nessun altro podista, quando vedo in fondo alla via, nell’aria tremolante dell’asfalto surriscaldato, una sagoma famigliare che procede in direzione opposta alla mia.
E’ un personaggio in cui mi imbatto da molti anni, tra gare e allenamenti; un po’ più vecchio di me, calvo, bassettino. Procede un po’ sghembo, la canottiera fradicia e il volto sofferente.
Credo proprio che anche lui mi abbia riconosciuto, ma via via che ci avviciniamo e arriviamo a portata di saluto si crea una situazione ambigua, tra l’imbarazzo e la sfida, ci guardiamo non ci guardiamo, ci salutiamo non ci salutiamo.
In realtà ciascuno sa benissimo chi è l’altro, siamo praticamente i soli esseri viventi in un deserto, stiamo condividendo la medesima, estrema fatica, eppure alla fine non ci scambiamo nemmeno un cenno.
Lo sento allontanarsi alle mie spalle, proseguo verso l’acquedotto e medito sul fatto che, come i cappellacci e la salama da sugo, anche questa del ti saluto non ti saluto è – purtroppo – una specialità ferrarese.
Medito amaramente sul provincialismo della mia città, su come le relazioni sociali al suo interno funzionino sulla base di appartenenza a circoli chiusi e ristretti, sul fatto che in qualsiasi altro posto in cui ho corso, da Washington a Monopoli, da Palermo a Stoccolma, i podisti tra loro si salutano sempre, anche se non si conoscono, come si salutano gli escursionisti che vanno per sentieri in montagna.
Mi sembra una semplice, bella regola di civiltà.
Attraverso viale Cavour, percorro via delle barriere e riprendo la mura costeggiando via belvedere, nell’illusione di trovare un po’ di refrigerio sotto gli alberi.
A dire il vero, medito tra me e me proseguendo la corsa, nemmeno io l’ho salutato; la bella regola di civiltà l’ho ignorata pure io.
Mi viene in mente che proprio ieri, nel viaggio di ritorno verso casa, ci siamo fermati a un bar per una sosta. Sono andato in bagno, e dopo alcuni secondi mi sono trovato al buio, evidentemente perché era scattato il timer della fotocellula.
Immerso improvvisamente nella più totale oscurità, tra l’infastidito e il preoccupato ho agitato goffamente le braccia per farlo ripartire e appena ritornata la luce ho concluso il più rapidamente possibile le operazioni minzionali.
Non ho fatto in tempo a chiedermi dove diavolo fosse lo sciacquone che lo scarico è partito automaticamente.
Sono uscito e per lavarmi le mani ho schiacciato il grosso pulsante posto sopra il rubinetto, che ha liberato per pochi istanti uno striminzito getto d’acqua.
Ho portato le mani gocciolanti sotto il bocchettone del Fumagalli d’ordinanza, ho premuto il tasto cromato col gomito e l’apparecchio si è messo rumorosamente in funzione, interrompendo il getto d’aria calda poco prima che io fossi perfettamente asciutto.
Improvvisamente questa banale sequenza, verificatasi chissà quante volte, si è sottratta alla assuefazione percettiva che di solito la avvolge, reclamando una sua evidenza, un suo significato.
Tutto, ho constatato, è organizzato in previsione e in risposta alla inciviltà dell’utente, che si dà per scontata: è scontato che chi esce da una stanza non spenga la luce, che chi va in bagno non tiri l’acqua, che chi si lava le mani non chiuda poi il rubinetto, che chi se le asciuga non usi un solo asciugamani per volta.
Nel tratto sovrastante la bocciofila lo stridio delle cicale è assordante, ma non me ne rendo conto, perché sono preso da un ulteriore ricordo: il libro che ho letto (o per meglio dire divorato) durante le ferie, ossia “La strada” di Cormac McCarthy. A parte le sue elevate qualità letterarie quello che mi ha colpito è che parte da un presupposto quasi banale, tanto è dato per scontato nella letteratura di fantascienza: se si dovesse verificare una qualche catastrofe nucleare globale la terra si trasformerebbe in un deserto e i sopravvissuti si organizzerebbero in bande di criminali disposti a tutto, perfino al cannibalismo.
E’ d’altronde il concetto espresso da Einstein nella celebre frase: “non so con quali armi si combatterà la terza guerra mondiale, ma posso dirvi cosa useranno nella quarta: pietre”.
Mi sembra che queste associazioni non siano libere, che sussista un sotterraneo legame tra questi fatti.
La civiltà non è acquisita una volta per tutte, richiede un lavorio attivo, continuo e faticoso per essere mantenuta. Se si sospendono una serie di regole, leggi, organizzazioni, legami più o meno forti, o semplicemente quando siamo da soli (lungo una strada, in un bagno pubblico, in mezzo al mare) tendiamo a regredire a un livello di funzionamento più basso.
Il termometro della farmacia comunale mi informa che la temperatura è ora di soli 40°, almeno nel punto in cui è collocato il sensore; ma ormai sono così stanco che la notizia non mi conforta particolarmente.
Attraversato corso Porta mare riconquistare il sentiero che fiancheggia gli istituti del Mammuth è particolarmente impegnativo, e provo un certo sollievo solo quando imbocco la via di casa, cercando negli ultimi metri di ridare spinta e stile alla mia corsa, appesantita dallo sforzo.
Tocco il portone e finalmente mi fermo. Il mio respiro è affannato, avverto con chiarezza il ronzio del sangue pulsarmi in testa.
Entro in casa e nel silenzio e nel buio sto immobile, in piedi, per un paio di minuti, sgocciolando sul pavimento della cucina in attesa che il mio respiro e le mie pulsazioni si regolarizzino.
Godo della mia staticità, del sollevarsi del mio petto, del sudore che mi inonda, della forza del mio cuore.
La civiltà non è acquisita una volta per tutte, richiede un lavorio attivo, continuo e faticoso per essere mantenuta.
Come la corsa.