
(foto di Marco Caselli Nirmal)
di Federica Pezzoli
È una scommessa temeraria quella di Stefano Massini, uno degli autori contemporanei italiani più amati e successore di Ronconi alla direzione del Piccolo di Milano, e del regista Leo Muscato: far rivivere per la prima volta sulle tavole del palcoscenico la storia e i personaggi di una delle icone culturali della storia del nostro paese, sia che si parli del romanzo sia che si tratti del suo autore, “Il nome della rosa” di Umberto Eco. A pochi giorni dal secondo anniversario della sua scomparsa, la prima trasposizione teatrale della sua opera più conosciuta, cui lo legava un rapporto di amore-odio, è arrivata giovedì sera sul palco del Teatro Comunale Claudio Abbado di Ferrara, dove rimarrà fino a domenica 11 marzo.
Una scommessa temeraria perché i termini di paragone sono il libro di Eco, che piaccia o meno pietra miliare della letteratura italiana del Novecento, e la sua trasposizione cinematografica di Annaud con Sean Connery: suo ormai nell’immaginario comune il volto di Guglielmo da Buskerville, frate francescano inglese, detective ante litteram a metà fra lo Sherlock Holmes de “Il mastino di Buskerville” e il filosofo conterraneo Guglielmo di Ockham.
Un’operazione coraggiosa anche per la complessità de “Il nome della rosa”: romanzo poliziesco, di formazione, elogio della Parola e quindi a suo modo anche saggio di semiotica, senza contare i rimandi filosofici e storici. E poi anche testo “di forte matrice teatrale”, come scrive Muscato nelle note di regia, con il prologo, la precisa scansione temporale in sette giorni, ciascuno diviso secondo le ore liturgiche del convento.
Massini, Muscato e la loro compagnia di tredici attori sono riusciti a confezionare un’operazione filologicamente pregevole, uno spettacolo con una sua efficace scorrevolezza e un ritmo asciutto, sfrondato di ogni indugio letterario.
Nella riuscita dell’impresa hanno un ruolo non indifferente nomi eccellenti del teatro italiano: da Eugenio Allegri, nel doppio ruolo del francescano Ubertino da Casale e di Bernardo Gui, inquisitore domenicano, a Renato Carpentieri (Jorge da Burgos), a Marco Gobetti (che interpreta Malachia da Hildesheim, il bibliotecario e Alinardo da Grottaferrata, monaco centenario); e infine Luca Lazzareschi nel ruolo di Guglielmo da Baskerville. La squadra degli attori anima l’affresco polifonico che popola il microcosmo dell’abbazia, frutto di un accurato lavoro sulla caratterizzazione dei singoli personaggi, ciascuno portatore di una precipua visione del mondo: dalle ansie millenaristiche del misticheggiante eretico Ubertino da Casale, alle severe ammonizioni di Jorge da Burgos, allo spassoso e maccheronico plurilinguismo di Salvatore, buffonesco frate poliglotta impersonato con un sorprendente grammelot da Alfonso Postiglione: menzione d’onore per la sua interpretazione. Lazzareschi usa con sapienza toni dimessi e ragionamenti strascicati, quasi sembra di star ascoltando pensieri invece di parole; il suo Guglielmo è molto inglese: tanto ironico quanto altezzoso, campione di retorica nei dialoghi, sempre in bilico fra simpatia e arroganza.
Intelligente anche la soluzione che strizza l’occhio alle postille al romanzo dello stesso Eco: “Adso racconta a ottant’anni quello che ha visto a diciotto. Chi parla, l’Adso diciottenne o l’Adso ottantenne? Tutti e due, è ovvio, ed è voluto. Il gioco stava nel mettere in scena di continuo Adso vecchio che ragiona su ciò che ricorda di aver visto e sentito come Adso giovane”. Muscato e Massini restituiscono questa duplicità attraverso la scelta di una compresenza della suadente voce narrante di Luigi Diberti, dalla cui affabulazione si crea demiurgicamente la scena, e del giovane Adso (Giovanni Anzaldo) che concretizza, agendo, i ricordi dell’anziano monaco.
Ricordi e memorie che si materializzano grazie alla scatola magica concepita da Margherita Palli, animata dalle videoproiezioni di Fabio Massimo Iaquone e Luca Attili. La loro capacità antinaturalistica e onirica di evocare gli ambienti sovrappone una liquida texture virtuale alla solida scenografia di Margherita Palli: l’abbazia e la sua biblioteca rivivono in un’impalcatura a soppalco, che rivela forse una remota ascendenza con le scenografie multiple delle sacre rappresentazioni medievali e crea piccole edicole dislocate a diversi piani di altezza e profondità, che moltiplicano gli spazi di azione, creando un contesto che rinuncia a una ricostruzione veristica e gioca invece sulle suggestioni e restituendo in un certo senso la complessità del romanzo.
Alcune frasi ascoltate la sera dell’8 marzo, giornata internazionale della donna, e pochi giorni dopo l’ultima tornata elettorale assumono una luce particolare.
Beffarde le parole di Guglielmo sulla verità e l’ordine dell’universo: “L’Anticristo può nascere dalla stessa pietà, all’eccessivo amor di Dio o della verità, come l’eretico nasce dal santo e l’indemoniato dal veggente. Temi, Adso, i profeti e coloro disposti a morire per la verità, ché di solito fan morire moltissimo con loro, spesso prima di loro, talvolta al posto loro. Jorge ha compiuto un’opera diabolica perché amava in modo così lubrico la sua verità da osare tutto pur di distruggere la menzogna. Jorge temeva il secondo libro di Aristotele perché esso forse insegnava davvero a deformare il volto di ogni verità, affinché non diventassimo schiavi dei nostri fantasmi. Forse il compito di chi ama gli uomini e di far ridere della verità, fare ridere la verità, perché l’unica verità è imparare a liberarci dalla passione insana per la verità”.
Commovente la “malattia d’amore” del giovane Adso per la ragazza, “unico amore terreno della sua vita”; lei innocente e semplice, accusata di stregoneria e colpevole solo di aver dato e aver provato piacere; lei che Adso vorrebbe salvare dal rogo perché “l’amore vuole il bene dell’amato”; lei della quale Adso non seppe mai il nome: “stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”.
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