
“Attento Zio Sam per la discarica senza legge” vignetta apparsa nel 1903 sul giornale americano Fudge
“Non aspettano altro che la più piccola provocazione per manifestare il proprio carattere”. “Hanno raggiunto un record di criminalità durante gli ultimi dieci anni che è ineguagliato nella storia di un paese civile in tempo di pace”. “Otto volte su dieci un immigrato che raggiunge questo paese ha un lavoro ad aspettarlo, anche se poi non c’è alcun lavoro” per chi già ci vive. “Sembra che molti di loro lo facciano per il piacere di mendicare”.
“Chi sbarca qui addirittura insiste sull’aiuto come se gli fosse dovuto”. Pensano che “bagno” sia una brutta parola. “La popolazione più sozza incontrata”. “Non cercano di fare altro se non raggiungere il dolce far niente”. “Vengono continuamente citati in giudizio per risse, violenze, tentati omicidi”. “Si assembrano in posti dove intralciano la circolazione e danno vita a risse che spesso finiscono a coltellate. Non ci sono misure urgenti da prendere da parte della polizia verso questi stranieri?”.
No, non è un collage di commenti estrapolati da forum e social sulla questione Gad. Sono alcuni stralci del libro Wop!, una raccolta di articoli tra fine Ottocento e prima metà del Novecento pubblicati dai principali quotidiani statunitensi che riguardano gli emigrati italiani oltreoceano. Il paziente lavoro pubblicato nel 1973 da Salvatore Lagumina, docente universitario del Nassau Community College, si apre con la vignetta dello zio Sam che accompagna questo articolo. La personificazione dello spirito a stelle e strisce scruta con atroce cipiglio la nave proveniente dalle “topaie d’Europa”.
A proposito, il termine “wop” che fa da corredo a questa amabile sfilza di sempreverdi giudizi significa “without papers” senza documenti.
In quegli anni un’ondata xenofoba particolarmente cruenta percorse gli Stati Uniti. I bersagli preferiti erano i nostri connazionali emigrati. In Louisaina, ricorda Gian Antonio Stella nel suo libro “L’orda” (cui devo molti spunti qui ripresi), gli italiani non potevano mandare i figli nelle scuole dei bianchi. Erano, parole dell’epoca, “non palesemente negri”. Allora non si usava inviare foto via e-mail o whatsapp. Tra le cartoline più gettonate fecero scalpore quelle che ritraevano “bambini sorridenti – scrive Alessandra Lorini nel saggio Cartoline dall’inferno – che hanno appena partecipato a un evento festivo”. La festa si era svolta il 20 luglio del 1899 linciando cinque italiani. Uno di loro aveva osato rispondere al fuoco di un nativo che lo aveva provocato.
Ma anche nei restanti continenti i nostri connazionali non se la passarono meglio. In Australia erano i dings, nome orecchiabile per chi vi vedeva dei cani (dingo); in Svizzera (dove oggi siamo dipinti come esempio felice di integrazione, anche se fino agli anni ’70 si potevano trovare nei bar cartelli del tipo ‘vietato l’ingresso ai cani e agli italiani’) i macarony, in Germania i cinch, in Francia i crispy. Ci sarà pur stato un motivo se nelle galere d’oltralpe ci potevamo vantare della maggior percentuale di detenuti? Nel 1904 – scrive sempre Stella – nelle carceri americane erano reclusi per omicidio, tra gli immigrati, 155 europei. 96 erano italiani. Percentuali rinfrancate anche nelle proporzioni per i reati minori.
Anche per questi motivi negli Usa si chiedevano misure straordinarie contro l’immigrazione che dall’Europa e dall’Italia aveva portato milioni di disperati in cerca di un lavoro.
Difficile sostenere oggi, a diritti civili acquistati, che quei luoghi comuni non derivassero da matrici economiche piuttosto che etniche.
Erano i tempi in cui la Grande Mela poteva sembrare a molti occhi di oggi una gigantesca Gad. “Non c’è mai stata da quando New York è stata fondata una classe così bassa e ignorante tra gli immigrati. Rovistano tra i rifiuti nelle nostre strade, i loro bambini crescono in luridi scantinati o in soffitte sovraffollate, di fatto venendo su vagabondi e mascalzoni”. È una cronaca del New York Times del 1882.
In quel 1882, proprio a New York, nasceva da immigrati italiani Fiorello La Guardia che negli Stati Uniti riuscì a studiare, impegnarsi e far progredire il paese. Divenne sindaco della sua città e oggi un aeroporto porta il suo nome.
Esempi del genere non mancano, tanto che oggi – e proprio negli Stati Uniti – esiste l’American Immigrant Wall of Honor. Quel muro, wall, sorge a Ellis Island, il grande antenato dei centri di identificazione ed espulsione.
Sopra di esso sono incisi i nomi di tutti gli immigrati che hanno fatto la storia d’America. Non sempre serve erigere muri. Meglio scriverli.
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