Eventi e cultura
30 Aprile 2017
L’ultimo libro del ‘re della parola’ raduna in 220 pagine “tutti i suoi temi preferiti, ognuno la contraddizione dell’altro”

Il ‘Lazzaro’ di Pazzi tra spiritualità e disprezzo

di Redazione | 3 min

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di Cecilia Gallotta

“È un libro che piace in tutte le lingue” quello della punta di diamante della letteratura ferrarese Roberto Pazzi, che si concede di mettere per iscritto il suo “vecchio vizio mentale (così da lui definito) “Lazzaro”. Presente alla presentazione anche Kyunghee Jung, la traduttrice coreana di una delle 6 lingue con cui il volume, si vede, “ha davvero qualcosa da dire a tutti”.

“In Lazzaro, ho trovato condensati tutti i temi preferiti di Roberto – confessa presentando il libro l’inviato della Repubblica Massimo Lugli, nonché amico dello scrittore – che poi sono ognuno la contraddizione dell’altro. C’è la città e c’è la provincia, la folla e la solitudine, c’è il sesso e la spiritualità. Il lato brillante e quello oscuro”.

Un doppio, quello descritto dal giornalista, che ha come desiderio (letterario, e forse personale) quello di purificare il mondo dai despoti, di distruggere la presunta onnipotenza del potere. Anche la contrastante distanza tra il personaggio di Alberto Cantagalli (il redentore) e Leo Bonsi (il despota, “a metà via fra Mussolini e Francisco Franco”), è destinato ad annullarsi, a sovrapporsi, a intersecarsi.

C’è un altro romanzo “molto romano – dichiara lo scrittore – che è ‘Conclave’, in cui Roma è per noi italiani provinciali andare dove la vita vive e non dove stagna, per poi constatare che era meglio stare là a guardarla Roma, a sognarla da lontano, perché poi se ci vai dentro, cosa sogni più?”. Una domanda che va dritta al profondo quella che Pazzi lancia al pubblico, la stessa che anima la sua penna: “faccio fatica a descrivere la differenza fra questo libro e quelli che ho scritto in precedenza – rivela l’autore – perché per me scrivo sempre lo stesso libro. Scrivere per me ha a che fare anche con la vita e con la morte: finché scrivo mi sento vivo, e quando finisco un libro ho il terrore di non essere più all’altezza per continuare a fare ciò che mi rende vivo”.

Sembra una relazione profonda, quella che lo scrittore ligure ha con la composizione, quasi spirituale, tema non certo indifferente a “Lazzaro”, dove la fede, vissuta in modo tormentato, “alterna una spiritualità fortissima ad un certo disprezzo”, commenta Lugli. “Io ho una fede assoluta in Dio – dichiara Pazzi – non ho dubbio alcuno sulla sua esistenza. Quello a cui non credo invece sono le religioni organizzate aziendalmente, le gerarchie ecclesiastiche, quello stesso potere che è il male nel mondo. Credo nei santi, che siano i trasmettitori dell’ultimo stadio del divino, ma se penso a Santa Teresa, a Massimiliano Kolbe, non capisco il salto fra questi e le gerarchie organizzate”.

Analogo disprezzo, anche se non dichiarato, va alla letteratura contemporanea di cui Pazzi preferisce “non parlare”, sebbene non si lasci sfuggire che “di settant’anni che ho mi sembra di averne settecento, tanta è la distanza che sento con le generazioni della letteratura contemporanea, pressoché inesistente come si può facilmente notare dai ragazzi che non sanno più scrivere, dalle ridicole tesi di laurea, dalle edicole che chiudono e dalla televisione, dove basta dire ‘capra’ per avere audience”. Una nostalgia che richiama ai tempi in cui “non avevamo nessun presidente, ma eravamo italiani perché avevamo il Foscolo”.

Non manca, in ‘Lazzaro’, la poesia, che “credo aiuti la narrativa a dare quel senso di mistero che chi non conosce la poesia non ha”, spiega l’autore, citando a esempio Umberto Eco, che con ‘Il Nome della Rosa’ “ha creato una splendida macchina razionale, che però genera arsura e a cui manca qualcosa”. Un velato riferimento al mistero della vita, che nel suo essere ineffabile genera “quella magia, quella perfezione esattamente come quella che si crea tra la parola e il suono”.

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