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(foto di Alessandro Castaldi)
“La mia vita è lottare”. Lo dice come se fosse la cosa più naturale del mondo. Josè “Pepe” Mujica, la pecora nera della politica internazionale, il guerrigliero presidente che ha esportato il modello di sobrietà dall’Uruguay in tutto il mondo, lo dice senza enfasi. Per lui, tupamaro che ha vissuto anni imprigionato in un pozzo dalla dittatura militare, è normale.
Pepe Mujica si è concesso una siesta pomeridiana dopo il bagno di folla dei licei ferraresi e dopo il pranzo di benvenuto al Conte Pietro di Francolino. È allora che ci incontra, anche se “il tempo es bastante per una intervista, la gana poca”, scherza prima di sedersi e bere il suo mate.
Nella sua biografia “Una pecora nera al potere”, scritta a quattro mani da Andrès Danza e Ernesto Tulbovitz e tradotta in italiano dall’editore Gabriele Manservisi del Gruppo Lumi, si legge che “la politica è una lotta per la felicità di tutti”. E lui, dopo la battaglia per la democrazia in Uruguay e i successi ottenuti alla guida del suo paese come la depenalizzazione dell’aborto, il riconoscimento dei matrimoni gay e la legalizzazione della marijuana, l’aumento dei salari e la riduzione della disoccupazione, sembra un monumento vivente della lotta. Una lotta che sembra come l’utopia di Galeano, più ti avvicini e più si allontana.
“La lotta non finisce mai – spiega -, perché penso che questo cercare di realizzare la civilizzazione umana è un percorso infinito e sempre ne percorriamo una parte, ma c’è sempre qualcosa che rimane incompiuto. Abbiamo inventato quella cosa che chiamiamo democrazia, che non è mai perfetta e non è mai finita. Per questo motivo questa lotta non riguarda solo la mia vita, è l’eterna lotta della società per migliorare e salire parte di questa scala generazione dopo generazione. E mai ne vediamo la fine”.
C’è spazio anche per una domanda in chiave locale. Cosa ne pensa dei fatti di Gorino, di un intero paese che erige barricate per sbarrare la strada a una corriera che porta delle donne migranti. “Devono mantenere il buon senso” risponde da lontano a chi ha scacciato le richiedenti asilo. “La cultura della gente è solita avere una visione ristretta di quello che viene da fuori; non puoi togliere il pane, il lavoro e la stabilità; la nostra coscienza è molto grossolana e facciamo fatica a renderci conto ogni volta di più che nel bene o nel male siamo globalizzati. I problemi che ha la gente in qualsiasi parte del mondo sono allo stesso modo problemi nostri”.
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