Attualità
17 Gennaio 2016
Commenti razzisti. L’intervento della scrittrice Francesca Boari

Io non mi sento ferrarese

di Francesca Boari | 5 min

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Mercoledì 22 maggio alle ore 17 presso la Sala Conferenze della Camera del Lavoro di Ferrara (Piazza Verdi, 5) farà tappa a Ferrara il “Viaggio in Italia con la testa in Europa” un tour di presentazione e discussione delle idee e delle proposte del Forum Disuguaglianze e Diversità, partito il 4 aprile e che terminerà il prossimo 7 giugno, toccando oltre 70 luoghi in tutto il Paese

12511524_10207030607058157_2029663721_nDopo aver letto i commenti razzisti per il suicidio di un ragazzo nigeriano di 28 anni, accolgo con coscienza e con la volontà precisa di non sentirmi ferrarese anche se nonostante tutto lo sono, il suggerimento del primo cittadino Tiziano Tagliani che così si esprime giustamente: “Ferrara è una città civile che deve fare i conti con una insensibilità crescente che preoccupa ed inorridisce. Nessuno degli odierni problemi di convivenza che l’emergenza immigrazione di questi anni porta in Europa può causare o legittimare tanta ignoranza, tanta superficialità, tanta cattiveria. Come Sindaco temo che il “seme venefico” possa infettare il lievito di piacevolezza, di cortesia, di benevolenza della nostra generosa città”.

 

Sono solo. Non so il mio nome. Nessuno lo pronuncia. Non sono proprio. Ho scelto il gesto estremo della morte volontaria per diventare qualcuno, magari anche solo proprio io. Quell’io che non è mai stato detto, pronunciato, affermato. Ho tentato la vita e mi sono accorto che non ero adatto. Sono nero di pelle, nero dentro, nero come questo maledetto caffè che sarà l’ultimo, lo giuro, l’ultimo che segna il mio palato. Ho la lingua diversa dalla vostra, la pelle diversa dalla vostra, l’odore diverso dal vostro. Ho cercato una possibilità sulla terra e il rifiuto mi ha inseguito con un abito scuro, più scuro della mia pelle, fino ad oggi. Oggi che getto questa tazzina vuota contro un vetro.

“Ehi tu, che cazzo fai?”

Faccio rumore, pianto i piedi sulla terra che mi lascia orfano.

“Vattene e non creare problemi!”

Me ne vado. Tu, sconosciuto tu, lasciami solo, e filtra nei tuoi occhi vuoti, nella indifferenza che ti abita, il mio nulla determinato da un non sguardo, un non ascolto, un non ti voglio, un non sei. Filtra se puoi l’immagine vuota di quello che resta.

E si chiede così poco, in realtà. Un abbraccio tenero e sincero, un sì al caldo che non arriva mai, un mazzo di carte, un brodo caldo, il sorriso di un viso amico.

Mi ammazzo. Lo faccio. Me ne vado altrove. Da dove vengo. L’unica cosa che so. Nigeria. Chi sono?

Ditelo voi adesso, che il mio corpo resta a brandelli sotto le ruote del fango dell’indifferenza. Ditelo, avanti? Cosa aspettate a pronunciare quel nome che non avete voluto riconoscere?

Che cosa si può essere senza nome e lontani dalla propria madre? Chi posso essere dopo una lunga sfilza di giornate orribili, terribilmente solo, niente a cui aggrapparmi. Non c’è mai stato niente che mi abbia potuto rendere un senso. Sono cattivo. Sì, forse sono sbagliato. Non so che sopravvivere. Questa mattina, come le altre, mi sono svegliato a fatica con l’odore del sudore a cornice. Momento tragico quello del risveglio, come ogni altro mattino, uno sopra l’altro. Di notte sogno profumi dimentichi, lontani.

Poi, appena sveglio, ricomincio a trascinarmi per le strade del paese. Adesso, davanti a questi treni che vanno e vengono, mi sento il cuore costretto come in una morsa d’acciaio e finalmente mi abbandono nella mia scena di disperazione, costruisco almeno l’ultimo atto di questa inutile tragedia che è la mia vita. Sento dentro di me una musica orribile, presagio di fine e di inizio, forse. Il coro. Mi procura una sensazione di angoscia profonda, forse perché evoca un sentimento di benessere e di serenità che non proverò mai più. La speranza? Una promessa che mi ha lasciato solo davanti a questo immenso dolore di incomprensione.

“Che ne dite raga, si fa un brindisi, uno in meno o no?”

Cazzo, chi scrive? Maledetto te, la tua calda stanza, i genitori che non hai, la terra che ti ha generato, la tua falsa faccia, i voti dei tuoi maestri, maledetti tutti voi che insieme siete responsabili di tanto niente. E tu, vecchia signora senza l’abito di raso rosa? E tu che giochi con quelle carte consunte e parli di niente davanti alla muffa che odora la tua di vita che è peggio della mia che non ho avuto e che avrei desiderato? Tu, marcia donna del niente, e i tuoi figli e le tue amiche e i tuoi numerosi amanti e la tua ipocrisia. Tu, credi davvero di potermi ferire ancora? La tua voce senza fiato non dice niente, non ha mai detto niente.

Avete chiuso le finestre, la sera, dopo questo e altro, e vi siete sentiti protetti, dietro i vostri fragili muri. Avete alzato i calici grigi a brindisi alla sicurezza delle vostre case brutte e fredde.

Che cosa posso fare per voi?

“Ragazzi un nero in meno! Festa!”

Festeggiate inutili respiri, alzate i vostri calici velenosi dentro la ristrettezza di un cuore anestetizzato da un procedere garantito.

Il futuro vostro non potrà che essere disperato. Di quella disperazione che si nasconde dietro gli scuri chiusi la sera. Purché nulla cambi.

Io, per me, non voglio rassegnarmi all’accettazione silenziosa. Il vostro adorato e comodo silenzio mi fa orrore.

Signora, mi sente?

“Allontanati, vattene, sparisci”

La vita come la tua mi fa orrore, voi mi fate orrore. Il mio calice dentro la quiete della morte che ho voluto è un calice di sangue che si verserà piano piano, lentamente, sui vostri silenzi, sulla grigia ipocrisia e sugli abiti colorati che non avete il coraggio di indossare.

Ho ventotto anni, apro le finestre e rido, rido di quel riso che nessun mortale ha mai potuto sentire. Finalmente libero vi sto sopra e vi alito il vostro niente. Buona vita, a voi, a voi che non conoscete il significato dell’amore.

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