Fermato con oltre 55 grammi di droga in casa. Arrestato
Durante il ponte festivo, i carabinieri di Comacchio hanno pattugliato le strade durante i servizi di controllo del territorio nei luoghi della movida
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Carie o non carie, questo è il problema. Ecco cosa doveva chiedersi un cacciatore delle Alpi vissuto 14mila anni fa, il primo uomo sulla Terra a curarsi da solo un’infezione cariosa nel tardo Paleolitico. Da un dente cariato parte una scoperta eccezionale targata Unife: il ‘dentista’ più antico della storia è stato infatti scoperto da un team di ricercatori guidato dalle università di Ferrara e Bologna. L’innovazione di tale ricerca, pubblicata sulla rivista open access Scientific Reports (del gruppo Nature) e presentata a Ferrara giovedì mattina presso il palazzo Turchi di Bagno, è che rappresenta la più antica evidenza archeologica di intervento manuale su una condizione patologica.
Fino ad oggi le più antiche cure dentistiche risalivano a 9-7mila anni fa, adesso verranno retrodatate di 5mila anni grazie allo studio sulla lesione cariosa appartenente ad un individuo maschile inumato 14mila anni fa presso il Riparo Villabruna nelle Dolomiti venete. “Nel 1988 il team dell’Università di Ferrara ebbe la fortuna di imbattersi in questa sepoltura – racconta Marco Peresani, archeologo della Sezione di Scienze Preistoriche e Antropologiche del Dipartimento di Studi Umanistici di Unife – di un cacciatore di circa 25 anni, probabilmente morto per anemia. I resti del defunto, seppellito sotto la più antica stele funebre ad oggi conosciuta (secondo record ‘storico’ per il paleodentista, ndr), sono stati scoperti casualmente da un appassionato del Bellunese durante i lavori stradali nella Val Rosna. Nonostante le ruspe ne abbiano tranciato il femore, lo scheletro si presentava perfettamente conservato e in ottimo stato”.
“L’ateneo estense si attivò subito perché si trattava di una valle mai esplorata dagli archeologici – ricorda Peresani – e la carie ben visibile nel terzo molare della mandibola inferiore fu subito individuata negli studi del ’92. Si trattava però di metodi di studio sorpassati e nessuno si preoccupò di andare più in profondità della cavità cariosa: a distanza di 25 anni sono riprese le ricerche per scoprire se vi potessero essere tracce di un tentativo di cura. Una tesi innovativa che ha dato la risposta sperata: la cavità cariosa è stata intenzionalmente trattata, al fine di ripulirne il tessuto infetto, tramite l’utilizzo di una punta di pietra. Il risultato ha una notevole implicazione sulla conoscenza delle prime forme di intervento odontoiatrico e apre nuovi scenari sugli albori della medicina dentale: dopo questa eccezionale scoperta, i colleghi d’oltralpe riprenderanno gli studi sui resti scheletrici risalenti a prima del Neolitico”.
Ad entrare nel dettaglio delle analisi scientifiche è il dottorando Gregorio Oxilia che, proprio su questa ricerca focalizzata sull’apparato masticatorio, ha costruito la sua tesi di dottorato. “Per prima cosa bisognava verificare se si trattasse di un’attività antropica o meno e, grazie alla ricostruzione funzionale della dentizione, abbiamo verificato che si trattava di un intervento fatto da un individuo in vita. Successivamente abbiamo proceduto alla microtac per descrivere la morfologia della cavità e della profondità della carie, qui abbiamo notato la presenza di strie in sezione e quindi abbiamo svolto dei test sperimentali per verificare che questi piccoli segni siano stati prodotti da uno strumento microlitico”. E in effetti i ricercatori hanno scoperto che questa forma rudimentale di trattamento dentale era un adattamento del già noto ‘toothpicking’: “Questi bastoncini di legno o di osso erano utilizzati già a partire da 2 milioni di anni per asportare frammenti di cibo dai denti – spiega il dottorando – ma, in questo caso, il piccolo stuzzicadenti in selce è stato usato per rimuovere un’infezione cariosa, sollevando ed asportando il tessuto infetto senza trapanare”.
La ricerca sul cacciatore della Val Rosna non si ferma qui. Lo scheletro è conservato nei depositi dell’università per estrarne e studiare il Dna e per analizzare la paramasticazione. Il reperto non è quindi visionabile al pubblico ma una sua fedele ricostruzione in resina è esposta al museo di Paleontologia e Preistoria di palazzo Turchi di Bagno.
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