Una mostra difficile, intelligente, premonitrice, quella che oggi si apre a Palazzo Roverella di Rovigo, fucina di sempre ottime manifestazioni artistiche da circa un decennio.
Il finire dell’800 con le sue certezze, le sue storie fedeli e passionali e l’inizio del Novecento, il cosiddetto “secolo breve” sono il fondamento della esposizione affidata dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo al professor Giandomenico Romanelli, curatore pure dell’altra, ottima, che Palazzo Roverella ha dedicato lo scorso anno a L’Ossessione Nordica.
Una modernità particolare, certo, strana, soggettiva, forse, che trova una sua oggettività nell’essere quanto mai up-to-date con la crisi di valori ed esistenziale che, oggi stiam vivendo e che pare condurci, sempre più, a quella mise en abyme cui fa riferimento l’evento rodigino.
Muse Gemelle, come la pittura, la scultura, seppur contenuta, la musica, certo di Wagner e del suo Wahlalla, ma pure – l’Isola dei Morti di Rachmaninoff che tanto allude ai quadri del simbolismo di Arnold Boecklin, presente con il grande Alberto Martini, grafico d’eccezione e pittore di storie dannate ed ironiche, ad un tempo.
E meravigliosi gli altri intenti più o meno sottesi e ‘tesi’ all’essere demoni o angeli caduti chissà, di tanti capolavori di grandi artisti europei quali: James Ensor, Franz Von Stuck, Leo Putz, Odilon Redon, Paul Klee, Carlos Schwabe, J.A.G. Acke, M. Kostantinas Ciurlionis, Max Klinger, Leon Bakst, Alfred Kubin, Felicien Rops, Gustav Moreau, Hans Unger, Lovis Corint, K. Wilhelm Diefenbach e degli italiani: Mario De Maria, Guido Cadorin, Cagnaccio di san Pietro , Bortolo Sacchi, del già citato opitergino Alberto Martini, tra gli altri.
È davvero una mostra dalle forti emozioni, e dal grande intellettualismo, sospesa tra realtà – già vissute o ancora da vivere(?) – ed inconscio – ma nasceva allora la psicanalisi, infatti – ed è un viaggio di crescita, di disperazione, di rinascita, si spera, per non ricadere proprio in quell’abisso cui ci sta ‘abituando’ il nostro tempo.
Una mostra da non perdere, assolutamente: c’è anche il cinema, la Settima Arte, quello di Lang, Murnau, Léger, premonitore coi suoi b/n nervosi, paurosi, pastosi ed inquieti, di un incubo che sempre più si chiama vita, quello che conduce – dritto filo – al cinema (non più cinema) di Peter Greenaway.
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