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28 Dicembre 2014
A Palazzo Te di Mantova la mostra sul grande artista spagnolo curata da Elvira Cámara Lòpez

Joan Mirò: l’impulso creativo

di Redazione | 4 min

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Joan Mirò

Si è aperta alle Fruttiere di Palazzo Te di Mantova la mostra “Mirò. L’impulso creativo”, aperta fino al 6 aprile 2015, realizzata in collaborazione con la Fundaciò Pilar i Joan Mirò a Mallorca e curata da Elvira Cámara Lòpez, direttore della Fondazione.

Joan Mirò (Barcellona, 1893 – Palma di Maiorca, 1983) opera con una pittura che nasce spontaneamente, in uno stato di grazia che gli permette di immaginare forme, di accostarle, di colorarle vivacemente, con una fantasia simile a quella del fanciullo, in una sorta di perenne “primitivismo” ingenuo che ha fatto dire di lui a Breton: la sua “personalità è rimasta allo stadio infantile”. Accettando la poetica del “fanciullino” pascoliano che è istintiva, si può concludere che Mirò è pittore puro.

Ciò non significa che sia un naïf , anche se, qua e là, affiorano spesso nelle sue opere elementi che sembrano collegarlo alla pittura ingenua del dilettante. Per esempio ne La fattoria, l’ultimo quadro di Mirò in cui è chiaramente riconoscibile il tema paesistico, la cura meticolosa con cui ogni elemento è realizzato sembra caratteristica del pittore naïf che tende all’analisi piuttosto che alla sintesi. Ma se si osserva la sapienza compositiva e cromatica ci si rende conto che, sotto l’ingenuità, c’è al contrario un’alta professionalità e una profonda maturazione intellettuale.

Questa felicità espressiva, questa serenità resterà fondamentale per tutta l’attività di Mirò, anche quando giunto definitivamente a Parigi, dopo avere alternato ai soggiorni nella nativa Barcellona e nella campagna spagnola quelli nella capitale francese, compie il salto verso una pittura apparentemente diversa.

Parigi è la meta agoniata da Mirò per liberarsi dagli impacci provinciali: “Bisogna andare a Parigi come un lottatore”, dice; “Parigi, Parigi, Parigi”, scrive ad un amico in lettere maiuscole; oppure: “preferisco essere assolutamente un fallito, mortalmente fallito a Parigi, piuttosto che galleggiare sulle acque putride di Barcellona”. Parigi è veramente il centro culturale più importante d’Europa; a Parigi vivono, o vi hanno soggiornato, gli ingegni più vivi del mondo, europei e americani, pittori, scultori, poeti, letterati, filosofi.

A Parigi entra in contatto con l’avanguardia, a Parigi espone, a Parigi aderisce al surrealismo. Anzi, prima ancora che Breton pubblichi il manifesto surrealista compone quel Carnevale d’Arlecchino che è opera altamente rappresentativa del particolare surrealismo di Mirò.

Mirò è pittore fecondissimo; la sua fantasia non conosce pause, pur restando sempre fedele alla propria concezione serena, che si incrina soltanto nelle ore drammatiche che vive tutta l’Europa negli anni successivi al ’30. In modo particolare Mirò, spagnolo, soffre il terribile momento della guerra civile in Spagna. In questi anni crea le cosiddette “pitture selvagge” e la serie dei mostri, quasi ricordando Goya, opere in cui non tanto il tema drammatico, quanto lo stile si ammanta di dolore con i colori che incupiscono e le forme degli oggetti che si contraggono drammaticamente.

Più tardi, mutata la situazione, la pittura di Mirò si rasserena nuovamente, per esempio nella serie delle Costellazioni, nei pannelli per il Palazzo Unesco a Parigi, nelle ceramiche, sempre con uguale ricchezza nella “germinazione spontanea di immagini nuove” perché, come ha detto lui stesso, “la pittura deve essere feconda; dovrebbe far nascere un mondo”.

Nella mostra di Palazzo Te, il visitatore, attraverso 5 sezioni – Il gesto, la forza del nero, il trattamento dei fondi, L’eloquenza della semplicità e la sperimentazione con i materiali – può percepire la forza, il bisogno di ricerca e rinnovamento, nonché l’assenza di vincoli che rappresentano il fil rouge del processo creativo e realizzativo di Mirò.

Lungo il percorso di visita sono stati, inoltre, ricostruiti i due atelier in cui, a Maiorca, Mirò realizzò le sue creazioni: il primo, lo studio Sert, l’ampio salone illuminato di luce naturale in cui, il maestro catalano, circondato da cavalletti, tele di tutte le dimensioni e stadi di avanzamento di lavoro, oggetti di uso quotidiano, terrecotte, piccoli ninnoli, ritagli di giornale appesi alla parete e dalla natura, creava le sue tele senza eguali; il secondo, è lo studio Son Boter, uno spazio più spartano e raccolto, voluto fortemente da Mirò per continuare la propria ricerca creativa e la sperimentazione di materiali. È questo un atelier dedicato soprattutto alla scultura e alla realizzazione delle tele di grande formato. La sua particolarità sono i numerosi graffiti lasciati dall’artista sulle pareti degli ambienti: una testimonianza diretta del modo di assembleare elementi diversi e di farli divenire il proprio “punto di partenza”.

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