Nel giorno della memoria ripenso a Giorgio Bassani con immutata devozione e ripropongo una parte di un mio saggio uscito qualche anno fa dal titolo “Interni ferraresi” che indagava i rapporti di Giorgio con la pittura. Questa pagina illustra il momento terribile della cena di Pasqua motore di “Il giardino dei Finzi-Contini. Eccola:
“Recentemente, poco prima della sua morte, Jenny Bassani Liscia raccontò ad una conferenza che si tenne alla Sinagoga di Via Mazzini a Ferrara per celebrare il quarant’anni della uscita dei Finzi- Contini l’episodio che si trasformò poi nella potente scena degli addii:
“Giorgio, nella triste occasione dell’ultima celebrazione della cena pasquale prima dell’Olocausto, si alzò a metà del rito e si assentò per un breve periodo; al suo ritorno portò quella poesia, Cena di Pasqua che in nuce diverrà nel romanzo la scena degli addii”:
E quando nel giro del ballo oscuro che ci rimorchia,/dimenticate ombre nostalgiche a fingere la vita,/spirito della notte ci riavrai, dopo le ultime risa,/i baci sulle guance, gli auguri,/gli addii sulla porta;// e là dalla soglia a scroscio, irrompendo un vento crudele/disperderà le fioche ed esili voci come capelli/incanutiti, nel portico, di tra i cancelli,/cieco soffiando sulle deboli fiamme delle candele://forse, torneremo di sopra, in sala, seduti qua attorno al solito//tavolo, sotto la lampada, commensali distratti,/fermi, le labbra sigillate,, pallidi di contro ai pallidi/ritratti dei nostri morti, morti anche noi, ma soli.>>
Basta un poco di attenzione per rammemorare Arsenio di Eugenio Montale. La devozione di Bassani per Montale è ampiamente acclarata. Montale scrisse forse la più acuta recensione al Giardino, ma la consonanza tra le due poesie è impressionante: specchi e vivi-morti, bufere e vento, ricordo e vite strozzate. Ma a maggior ragione la pagina degli addii si carica di un ulteriore e più complesso senso morale che realizza e che sigla- una specie di mise en abyme- la scelta di due pittori come Giorgio Morandi e di Nicolas de Staël, l’eticità del racconto, la presa di coscienza dell’io narrante dopo la perdita di Micòl. Un io narrante che diventa autore che prende il nome di Giorgio Bassani, che rifiuta la vita strozzata e che investe nel realismo della sua narrazione la carica etica e giudicante di de Staël suicida perché non ha saputo sanare la felure, la ferita, anche quando sembrava poter penetrare al fondo di una ricerca che lo avrebbe riaccostato alla natura tramite una figuratività da “ultimo naturalista.”
Leggere allora la pagina degli addii in prosa è affrontare una realtà finalmente non annebbiata, non riflessa come in uno specchio:
“Io non ero morto- mi dicevo-, io ero ancora ben vivo”. La si confronti con Cena di Pasqua.
E poi? Poi ci sarebbe stata la scena ultima, quella degli addii:
Già la vedevo.[tutti i corsivi sono miei] Eravamo scesi tutti in gruppo giù per le scale buie, come un gregge oppresso. Giunti nel portico, qualcuno (forse io) era andato avanti, a socchiudere il portone di strada, ed ora, per l’ultima volta, prima di separarci, si rinnovavano da parte di tutti, me compreso, i buonanotte, gli auguri, le strette di mano, gli abbracci, i baci sulle gote. Senonché, improvvisamente, dal portone rimasto mezzo aperto, là contro il nero della notte, ecco irrompere dentro il portico una raffica di vento. E’ vento d’uragano, e viene dalla notte. Piomba nel portico, lo attraversa, oltrepassa fischiando i cancelli che separano il portico dal giardino, e intanto ha disperso a forza chi ancora voleva trattenersi, ha zittito di botto, col suo urlo selvaggio, chi ancora indugiava a parlare. Voci esili gridi sottili, subito sopraffatti. Soffiati via , tutti: come foglie leggere, come pezzi di carta, come capelli incanutiti dagli anni e dal terrore….
Il destino di separatezza, la ferita inferta è lì che grida come il vento della storia. La reazione del “gregge” non è che di “terrore”, di muta acquiescenza al “vento d’uragano”.
E’ il momento di compartecipazione e di compassione al destino comune:
“Io ero rimasto qui, e per me che ero rimasto, e che ancora una volta avevo scelto per orgoglio e aridità una solitudine nutrita di vaghe, nebulose, impotenti speranze, per me in realtà non c’era più speranza, nessuna speranza.”
E’ un momento, è la constatazione della ferita. Poi il riscatto morale: “Ma chi può mai prevedere?” che si concluderà nella presa di coscienza dell’irrimediabilità di ogni ferita.”