Eventi e cultura
22 Gennaio 2014
Un ebreo ferrarese scampato alle persecuzioni nell'incontro al Vergani dedicato alla Giornata della Memoria

Un vecchio bambino di nome Cesare Finzi

di Redazione | 5 min

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Cesare Finzi e Anna Maria Quarzi

Cesare Finzi e Anna Maria Quarzi

di Silvia Franzoni

Ogni mattone delle Mura di Ferrara avrà sentito nominare il cognome Finzi almeno mille volte, quasi pare che al menzionarlo si crei una eco così che tutti possano sentirla. Ma ieri mattina, nel salone d’onore del Palazzo Pendaglia, sede dell’Istituto Vergani-Navarra, il ricordo dell’immaginario giardino di Giorgio Bassani è presto sparito dalle menti dei presenti, perché a stringere il microfono era un Finzi in carne ed ossa, un signore distinto sull’ottantina che con voce ferma si è presentato con la semplicità di un bambino: “Io sono Cesare Finzi, sono nato qui a Ferrara nel 1930 in una famiglia ebraica”.

Il dottor Finzi non è un relatore qualsiasi: il secondo incontro del Salotto Letterario, promosso dall’istituto alberghiero ferrarese in collaborazione con l’Istituto di Storia Contemporanea, ha presentato alle classi quinte della scuola superiore un “documento vivente”, una voce squillante che risuonasse tra le pareti e nelle menti. “Vi auguro di ragionare sempre con la vostra testa – introduce la professoressa Quarzi dell’Istituto di Storia Contemporanea – e di non ubbidire agli ordini ciecamente”.

E’ un racconto di immagini vive, quello del signor Finzi, cardiologo in pensione, faentino d’adozione, da anni impegnato a raccontare ai ragazzi la sua testimonianza di vita. Un racconto di quelli che ti prendono alla gola e cala il silenzio, qualsiasi altra cosa perde importanza: è una vita intera quella che ti è di fronte. È la vita di un “un ex bambino ebreo ferrarese ormai diventato vecchio”: nel 1938 Cesare Finzi è come tutti i suoi coetanei, forse soltanto più gracile, e per questo ha frequentato i primi 3 anni delle scuole elementari nella piccola scuola ebraica di via Vignataglata. L’unica differenza notabile è quella di passare il sabato in sinagoga a recitare le preghiere  in ebraico, “senza capirci proprio nulla”, invece di “ripetere in latino il Pater Noster, in chiesa, la domenica, senza comprenderne una parola”. Poi arriva il 3 settembre 1938, “il giorno che cambiò la mia vita”, come titola anche uno dei suoi libri. Sul giornale, una scritta a tutta pagina recita Studenti ed insegnanti ebrei esclusi dalle scuole statali e pareggiate. Le parole di Cesare Finzi sembrano riecheggiare della stessa incredulità di settant’anni prima: “Ci pensate? Avevo 8 anni e ho scoperto che non ero uguale agli altri bambini. Il trafiletto sul giornale spiegava che il massimo organo legislativo della Nazione vuole difendere la razza ariana. Ma di quale razza stiamo parlando? Esiste una sola razza umana! Siamo tutti uomini uguali! Abbiamo tutti due braccia, due gambe, una testa e nella testa un cervello, la parte più importante di tutti noi, quella capace di ragionare, questa sì, in maniera diversa”.

finzi3Finzi scandisce più volte e sillaba risoluto “ra-gio-na-re”. Ragionare. Ragionare è proprio quello che la professoressa di italiano, “una ragazza giovane e laureata”, si è rifiutata di fare durante l’esame di terza media nel giugno del 1943. Cesare Finzi e l’amico Nello Rietti si erano presentati in via Borgo Leoni per sostenere gli esami, ma i loro nomi “non potevano stare vicini a quelli di tutti gli altri, e sono stati relegati a piè pagina”. E non potevano starci loro stessi, così che furono fatti sedere in ultimo banco, distanti da tutti. “Quando arrivò la professoressa ci fece spostare in prima fila, sempre separati, perché disse che non avremmo comunque potuto attaccare la nostra malattia, chiedendoci poi se davvero avessimo la coda: questo vuol dire accettare passivamente ogni cosa senza ragionare neppure un pochetto”.

Poi la voce di Cesare Finzi sembra perdere vivacità d’improvviso, si fa lieve e il suono vacilla: il superamento di quell’esame servì alla sua futura istruzione, ma non fu di alcuna utilità a Nello Rietti. “Lui è morto a Buchenwald nel marzo del 1945, pochi giorni prima che il campo fosse liberato dagli alleati”, spiega vistosamente commosso.

Pochi giorni dopo, l’8 settembre 1943, quello stesso consiglio che deliberò la razza infima degli ebrei, mise in minoranza Mussolini. Le leggi razziali rimasero in vigore, “non erano leggi fasciste, ma leggi italiane”, e iniziò la caccia agli ebrei: era stato istituito un premio di 5000 lire per ogni cittadino italiano di religione ebraica denunciato. In tutta Italia furono più di 8000 le persone consegnate alle autorità dietro compenso. “Quando mio zio Giuseppe, da Mantova, venne a sapere che dei nostri parenti a Bolzano erano stati caricati su dei camion e deportati in Germania, capì che solo una fuga repentina poteva salvarci e con la sua famiglia si precipitò a Ferrara, dove convinse i miei genitori a scappare”. Dei parenti bolzanini di Cesare Finzi non si seppe più nulla fino alla riapertura di quegli “armadi della vergogna” i cui i documenti riportano soltanto la morte della piccola cuginetta Olimpia Rimini, uccisa nelle camere a gas nel marzo del ’44.

finzi1“Salimmo su di un treno in direzione sud Italia, dove le truppe alleate avevano già liberato le città dai tedeschi. Ma a causa del coprifuoco il treno si fermò a Ravenna e solo la cortesia della famiglia Muratori ci permise di salvarci”.

La narrazione di Finzi si fa concitata, veloce, inquieta. Ripercorre tutte le tappe della fuga, i volti dei giusti, l’ansia di quegli istanti. Gabicce, poi Mondaino, e poi più su, sulle colline di Montefiore Conca. “La terra di nessuno su cui cadevano le bombe di tutti”, dei tedeschi e degli anglo-americani. I documenti falsi avuti grazie alla gentilezza di un funzionario fascista, la nuova identità, il nuovo nome Cesare Franzi e un nuovo domicilio a Milano che non esisteva ma che poteva salvarli. Poi la bomba che colpisce al piede il fratellino. Le condizioni di salute che si aggravano di ora in ora e la corsa attraverso la linea di fuoco per cercare soccorso. E finalmente la salvezza, in un ospedale da campo americano, a Mondaino. “Forse io ho scelto di fare il medico –  spiega sorridendo Finzi – come segno di gratitudine nei confronti di quel medico, che salvò la vita a mio fratello: ho ancora negli occhi il volto di quel capitano che lo ha curato”.

Solo alla fine della guerra, dopo 25 aprile 1945, quando anche Ferrara fu liberata, la famiglia Finzi tornò a casa. “Poi venne l’ottobre 1945, ed io ero di nuovo come tutti gli altri”, come tutti i nuovi compagni di classe al liceo scientifico Roiti che “mi hanno accolto come fossi sempre stato uno di loro”.

“Quel giorno – conclude Cesare Finzi – il mio nome è stato chiamato insieme a quello di tutti gli altri”.

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