Venne licenziato dai suoi datori di lavoro (una ditta ferrarese specializzata nella realizzazione di abiti su misura) perché, secondo un fornitore, un imprenditore cinese, chiedeva percentuali sulle commesse. La successiva impugnazione del provvedimento portò a una conciliazione a favore del lavoratore, che si vide elargire la somma di 40mila. Nel frattempo gli arriva la denuncia da parte del fornitore che lo aveva segnalato all’azienda.
Era finito così a processo con l’accusa di estorsione Stefano Arienti. Secondo l’ipotesi iniziale l’imputato si sarebbe spacciato agli occhi dell’imprenditore cinese per un dirigente della ditta, e con questo pretesto si recava presso il laboratorio a cui l’azienda commissionava i lavori, estorcendo somme di denaro dietro la minaccia di interrompere il rapporto di collaborazione. Secondo il titolare del laboratorio, che però ha scelto di non costituirsi parte civile, le richieste dell’imputato – che era davvero impiegato nella ditta che commissionava i lavori – corrispondevano sempre a una quota fissa dei lavori: il 10% di quanto fatturato.
Grazie a questo schema estorsivo l’uomo sarebbe riuscito a ottenere circa 130mila euro nel corso di un anno.
Davanti ai riscontri dibattimentali però le prove a suo carico sono andate sempre più affievolendosi. A cominciare dagli interpreti che man mano averebbero assistito l’imprenditore cinese (che non parla italiano) nella sua denuncia: non è stato mai possibile rintracciarne uno né arrivare a determinarne le generalità. Lo stesso imprenditore cinese, sentito alle udienze scorse attraverso un interprete del tribunale, ha ricostruito una storia più che confusa. Tanto che in sede di requisitoria il pm Stefania Borro ha chiesto l’assoluzione per insufficienza di prove. Lo stesso vale per l’avvocato della difesa, Beniamino Del Mercato, che ha sostenuto l’impossibilità di dimostrarne la colpevolezza.
Dopo due ore e mezza di camera di consiglio il giudice Testoni ha accolto le richieste assolvendo l’uomo perché il fatto non sussiste.
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