Lettere al Direttore
11 Giugno 2013

Antonioni, non impacchettate quella mostra

di Redazione | 6 min

Commovente e perturbante. La mostra dedicata a Michelangelo Antonioni (Lo sguardo di Michelangelo – Antonioni e le arti) ospitata fino a domenica 9 giugno al Palazzo dei Diamanti di Ferrara e ora in procinto di volare verso altre sedi europee, è stata un regalo straordinario alla città, in tempi in cui mettere in piedi una mostra e, per giunta, una mostra di cinema può risultare, da tanti punti di vista, un’impresa eroica. Per questo bisogna ringraziare Dominque Païni, Maria Luisa Pacelli, Massimo Maisto, e tutti  coloro che l’hanno voluta e l’hanno concretamente realizzata. Non ha senso confrontarne i numeri con quelli di mostre d’arte precedenti, notare che la coda su via Ercole d’Este non c’è mai stata, e concludere, con notevole miopia, che Antonioni non attira spettatori. Per distruggere questa facile menzogna, basta avere negli occhi la sala Boldini costantemente esaurita nei giorni della rassegna completa dei film del regista, basta pensare al fatto che Antonioni viene studiato e ammirato ovunque nel mondo, che si costruiscono su di lui interi programmi di studio nelle più importanti università americane e inglesi, basta ricordare il debito verso il suo cinema dichiarato a più riprese dai registi che vengono oggi premiati nei maggiori festival, da Wong Kar-Wai a Wim Wenders, da Fatih Akin a Kim Ki-Duk. Eppure, un errore c’è stato o meglio, ci sarà.

L’immenso materiale dell’archivio a disposizione delle istituzioni ferraresi che ha costituito il nucleo principale della mostra, verrà probabilmente riposto e non esposto, chissà ancora per quanto tempo. Le motivazioni si sanno e non ha senso indagarle ancora, ma è evidente che ciò che abbiamo visto in questi mesi a Palazzo dei Diamanti non è adatto per una esposizione temporanea e deve diventare uno spazio permanente e da valorizzare come un punto fondamentale della visita alla città, a disposizione dei suoi abitanti e degli studiosi, oltre che per il suo carattere di risorsa turistica potenzialmente enorme. I casi sono forse imparagonabili, ma si viene presi da profondo sconforto se, da ferraresi, si visita, ad esempio, lo Sherlock Holmes Museum di Baker Street, a Londra, e si pensa a quale destino vanno di nuovo incontro i materiali dell’archivio Antonioni. Lo Sherlock Holmes Museum è un’invenzione. Arthur Conan Doyle decise nei suoi romanzi che l’investigatore e il suo aiutante Watson avrebbero abitato in Baker Street, e per questo l’appartamento è diventato celebre e visitatissimo. Che materiale ci sarà mai in una casa che è stata abitata solo da eroi letterari, abitata solo su carta? Pipe, cappelli, suppellettili d’epoca, vere o finte, manichini con i personaggi dei romanzi di Doyle, penne, carte, calamai e altre cianfrusaglie. Una completa finzione, un museo in cui non c’è niente di vero diventa una grande attrazione. E’ vero, siamo a Londra. Ed è vero che Sherlock Holmes ha, forse, un pubblico più ampio di quello dei film di Antonioni (allucinante!). Ma davvero crediamo che un museo Antonioni non sia fondamentale a Ferrara proprio in tempi di crisi? Davvero riteniamo che non sia un priorità su cui accelerare? Davvero pensiamo che un Museo Antonioni sul modello della mostra appena conclusasi non sia di vitale importanza non solo su un piano culturale, cioè di connessione profonda tra il suo cinema e la città, il suo fiume, la sua gente, ma anche da un punto di vista economico e di promozione di Ferrara in Italia e nel mondo?

Chi ha visitato la mostra sa di cosa parlo. Sa che cosa intendo quando dico dell’emozione – commovente e perturbante, straniante e straziante – che si prova a ritrovarsi di colpo negli scenari dei film di Michelangelo, dopo averli visti negli schermi e nelle foto, e calpestare i luoghi dove passarono i personaggi dei suoi lungometraggi, i grandi attori da lui diretti. Sa che cosa si sente quando si esce dal Palazzo dei Diamanti e ci si trova proprio di fronte al quadrivio degli Angeli, sì, quello di Cronaca di un amore, e poi, poco più in là, la cattedrale e il palazzo municipale, sì, quelli di Al di là delle nuvole, quando ci si trova nella città del grande fiume Po da cui tutto partì, con i documentari, con Gente del Po, così indissolubilmente legata, per conformazione territoriale – si pensi alle campagne riprese nel Grido – e spirituale, alla poetica dell’assenza e del silenzio, al fare metafisico ed esistenziale del maestro Antonioni.

E se dai materiali della mostra si riflette, oltre che sullo sguardo, sul mondo di Michelangelo Antonioni, il mondo culturale in cui era immerso, si capisce ancora una volta quale vergogna sia tenere quei materiali nascosti – finemente conservati, per carità – in una cantina, e non metterli a disposizione di tutti. Perché il mondo di Michelangelo Antonioni è fatto dalle lettere critiche di Franco Fortini e di quelle di Italo Calvino, dal tabellone del torneo di tennis vinto da Antonioni e con Bassani tra i partecipanti, dalle interviste di Moravia, dalle lettere piene di ammirazione di Fellini o quelle in cui Visconti lo chiama Michele e non Michelangelo e chissà perché, e ancora dalla corrispondenza con i suoi attori, con Alain Delon che informa Antonioni di non poter partecipare alle riprese dell’Eclisse e del Gattopardo perché già impegnato in Lawrence d’Arabia (poi, come sappiamo, andò diversamente), con Lucia Bosé che lo rassicura di essere tornata in piena forma tanto che “a settembre sarò talmente bella che anche tu ti innamorerai (facile!)”. C’è il lavoro attorno ai film, la sceneggiatura originale di Professione: reporter, gli scambi con Ennio Flaiano e con Tonino Guerra. E ancora le lettere di Leonardo Sciascia che suggerisce di cambiare qualcosa in L’avventura, di Giorgio Morandi, quella del critico Vittorio Bonicelli che abbandona le vesti professionali per esprimere la sua intima e turbata commozione dopo aver visto Professione: reporter, quella ironica di Pomodoro che si “congratula” – in grande, in rosso – con Antonioni per il premio non vinto. E ancora Argan e Vedova, Caretti e Eco. Un patrimonio immenso, con il meglio della cultura italiana del secondo novecento che viene in qualche modo coinvolto nei lavori di Antonioni. Ma non limitato all’Italia è stato il mondo di Antonioni e allora si trova l’attivista delle Black Panther Kathleen Clever (presente in Zabriskie Point) che chiede ad Antonioni di finanziare la lotta rivoluzionaria, la foto di Julio Cortázar di fianco al cartello di Zabriskie Point nella Death Valley californiana, che scherza e scrive: “Blow up (ispirato proprio a un racconto dell’autore argentino, n.d.r.) meets…Zabrieskie point”, i giornali cinesi che definiscono il documentario Chung Kuo Cina un’offesa al popolo e al loro paese, le lettere di Roland Barthes.

Le istituzioni sono da anni al lavoro per riaprire il museo, chiuso nel 2006. Questa è l’occasione per accelerare, non per demordere o seppellire. Questa è l’occasione per tenere fuori questi materiali, sì, anche se non ci sono soldi, e sì anche se abbiamo avuto il terremoto e Palazzo Massari non è agibile. Come? Le istituzioni sanno di poter contare su tante energie, su un tessuto culturale ferrarese attivo e che può dare il suo contributo. Se si vuole che il materiale resti a disposizione, lo si può fare. E allora prendiamo a ispirazione il momento più sorprendente della mostra appena terminata, quel sogno in cui veniamo immersi appena usciti dalla prima parte dell’esibizione. Mentre percorriamo lo spazio che ci separa dalle ultime sale, si sente il rumore della pallina da tennis, guardiamo a destra e c’è una rete, un campo. E’ deserto, nessuno sta giocando, ma noi ci vediamo una partita, la partita immaginaria che abbiamo appena visto nelle scene di Blow up e, arrivati in fondo, ora che non sentiamo più il suono dei palleggi, ci viene quasi da andare a raccoglierla, quella pallina immaginari, e di restituirla ai giocatori. Ecco, per riaprire il museo Antonioni subito, occorre essere un po’ visionari. E, forse, anche Michelangelo ne sarebbe felice.

Michele Ronchi Stefanati

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