PROLOGO
Nelle orecchie i Bronsky Beat – 1983
La premessa è d’obbligo: questo post non deve essere considerato il tentativo di riparare i danni collaterali di quanto detto alla prima puntata.
I dati spazio temporali sono ovviamente concettuali; date e tempi storici potrebbero non corrispondere con la realtà e il concetto di durata del tempo è rappresentato come percepito e non come si è evoluto.
Non deve essere il tentativo di riconciliare i rapporti con coloro che hanno dimostrato di essere finti come i rapporti che essi stessi coltivano. Non deve essere la pubblicità occulta di posti, luoghi o locali come molti pensano (o benpensano). Non vuole ferire, parlare male, offendere o provocare reazioni.
Sono bene accette le riflessioni, anche discordanti, anche contrariate, anche piccate e maliziose… sia sui concetti, sia sulla lingua utilizzata, sia sul fatto che l’italiano è bistrattato; sono bene accetti anche i cultori dell’accademia della Crusca e dei caffè letterari romantici o pre-romatici che dir si voglia, ma soprattutto, prima di rispondere e commentare, il pensiero più opportuno è che là fuori e qui dentro i problemi sono ben altri… i problemi sono i loschi figuri sulle mura di architettura che mentre noi ci scanniamo qui loro scannano le vite, i problemi veri sono là, nei coni d’ombra oscuri dietro all’ippodromo, i problemi sono nei casi irrisolti per volere dell’uomo.
Ma andiamo a cominciare:
La stanza coi mobili di legno sbiancato comprati chissà dove e chissà con quale saldo dai miei genitori, uno lavoratore e una casalinga, era illuminata, male, dalla plafoniera rossa a faretti. Mio padre per risparmiare aveva svitato due lampadine (all’epoca quelle a basso consumo erano così… svitate).
Le calze del giorno prima, quelle a rombi, le avevo comprate da Zanolini in via Martiri della Libertà superando l’imbarazzo di interagire con la commessa uscita da Vestro o Postalmarket; le avevo nascoste sotto i libri di latino appoggiati per terra in attesa di essere messi nel Jolly rosso e Blu per il lunedì successivo. Le avevo nascoste per potermele rimettere la sera del sabato: ne avevo un paio solo e se mia madre le lavava ero rovinato.
Ero stato in casa tutto il pomeriggio a fingere di studiare; ormai i 20 anni si facevano sentire. La vita era molto impegnativa, la miscela al 3% era diventata costosissima, l’acceleratore della vespa rimaneva incastrato e mi avevano rubato lo sportellino copri carter. Il bomber stava lì ad aspettarmi dal giorno prima, la linguetta della cerniera si era rotta e dalla tasca interna usciva l’imbottitura.
Erano quasi le 6 (le 18 ancora non si usavano), a 20 anni il tempo non passa mai, a quaranta il tempo non si ferma. Lo swatch era dentro il cassetto perché il frastuono del tictac non lasciava scampo a chi come me aveva il sonno turbato dalla festa in casa della sera precedente. In discoteca ci andavano quelli più grandi di me. Con la vespa al massimo andavo in piazza, all’università. Per andare lontano dovevo prendere la 128 ma dovevo fare metano dietro alla Zabov, troppo distante (!).
Esco. Direzione Voltini, non quelli di adesso, quelli che alcuni non sanno nemmeno cos’erano, quelli che alcuni ne sentono parlare, quelli che gli alternativi di oggi possono paragonare a…niente.
La vespa la parcheggio davanti alla creperie, evitando la gente che esce dal cinema oggi chiuso e abbandonato; passo dal mercato coperto quello che oggi è chiuso o solo addormentato, passo da via delle volte perché ancora si può: mi fermo sul ponte dell’impero a guardare il canale libero e silenzioso… tra qualche anno ci faranno un pub su una nave…
A piedi faccio il giro da dietro, sbuco in piazzetta della luna, passo alla destra del castello, lancio un’occhiata alle torri per vedere se sono ancora lì, e inizio a sentire il vocio della gente ferma in piazzetta Savonarola, ammassata, vicina, accalcata.
Il ritrovo è davanti all’edicola all’angolo con Zanolini per signora. Tutti presenti. In tasca 8 mila lire (duemila se ne erano andate dal benzinaio in via Foro Boario) quindi io non posso permettermi il lusso di prendere niente, forse un paio di gettoni alla sala giochi ma poi non ho più budget, ma ho le calze a rombi.
Siamo lì, davanti all’edicola, la piazza è gremita, infarcita di gente; bomber, piumini, eskimo, qualche skin dall’altra parte; i ricchi con i Moncler e i guanti che adesso usano i carpentieri, qualche punk che passa e si dirige dalle parti del Red Lion, e poi sui gradoni del cinema, Ristori o Rivoli, li ho sempre confusi.
Si parla di niente, almeno noi. Si parla della festa della sera prima dove siamo arrivati imbucati senza nemmeno sapere chi fosse il festeggiato e per cosa festeggiasse. Si parla degli esami dati, si saluta qualche compagno di facoltà, la si fa breve e visto che quelli che erano in sala (giochi) han finito, quelli che volevano prendersi una birretta da giori son tornati…dove si va?
Il nuovo amico di Bologna, venuto a Ferrara per studiare architettura, propone Zuni.
Che!? Cos’è Zuni? Una rivista di arredamento Max?
-..Un cane..Zuni è un cane..-
Giovanni che studia letteratura americana, contrariato e con il montgomery del padre si espone:..No, Zuni è il nome di un popolo che vive in America, nel deserto del New Messico..-
– Zuni è il locale che c’è in via Ragno…il nome è il nome del cane del proprietario..credo!-
Non ero abituato a frequentare locali, se non centri sociali o vecchie case del popolo..a Ferrara c’era il Dazdramir, ma ci andava la gente più grande e io lo bazzicavo al pomeriggio, oppure la casa del popolo in via della Resistenza, ma era fuori portata e miei compagni non venivano…io ci andavo per il flipper di Drive Inn; la Piola era lontana, ci si andava pochissimo, quasi mai…almeno noi.
In silenzio seguo gli altri, incuriosito da sto Zuni.
Non so perché i posti nuovi mi mettevano sempre a disagio, non sapevo chi ci fosse, se eravamo troppo giovani, se dovevamo atteggiarci da grandi…dov’era e se potevamo stare lì anche senza bere.
Cammino e arrivo in S.Romano, è tutto rimasto uguale, a parte che ho vent’anni in più, a parte che c’è l’odore del Mc Donald, e a parte che la stessa gente che vedevo all’edicola dei voltini adesso la vedo da Massimo: quelli che erano già grandi ora sono vecchi. Io, sono ancora qui.
S. Romano è la stessa da almeno 500 anni, qualche negozio in più, qualche casa in più, ma la prospettiva doveva essere la medesima che scorgevano coloro che arrivati in barca all’attracco di Porta Paola, proseguivano a cavallo o a piedi verso la grande chiesa con la facciata in marmo. Giro a destra nella strana, stranissima via Ragno. Una strada ad imbuto, più larga verso via Porta Reno dove c’era e c’è il locale con il nome di un cane..e di una popolazione di nativi americani, e di altre mille altre cose che non so.
Oggi dentro è rimasto uguale, stesso loft, stessi muri, sessa entrata, stessa palla stroboscopica all’ingresso (forse..); la gente è diversa.
Quella sera erano grandi, adulti, professionisti, parlavano e non si guardavano negli occhi, la musica era quella di quel tempo, al bancone gente uguale a chi beveva.
Il posto? Folgorante. Un tuono, un loft o un flat; meraviglioso da sempre e sempre lo sarà. Certo, non può, non poteva e non potrà piacere a tutti, ma io da allora ad oggi ci ho sempre trovato qualcosa.
Il minimalismo mitteleuropeo, i colori e gli arredi, oggi cambiati in meglio, che sanno di nuovo e riciclato; tracce di cineforum, riviste che si leggono solo lì (almeno io nella mia comune ignoranza), musica nuova, vecchia, ipernuova e scelte culturali, linee e direzioni del tutto controcorrente per gli amanti e per i curiosi. Mostre e rassegne, così poco pubblicizzate, meriterebbero più attenzione e più sguardi; ma a Zuni è sempre andato bene così.
Come allora, oggi e adesso è Zuni come quando Zuni è stato pensato. Zuni ha sofferto molto le scelte diverse, non di cattiva fede, anzi, tentativi di miglioramento non capiti; Zuni si è scosso ed ora di certo risente di un lungo, lunghissimo periodo di convalescenza, ma ormai, a mio avviso sta bene: è ritornata la voglia di frequentarlo, di prendere un giornale e leggerselo in fondo la dove c’erano i materassi arrotolati, sostituiti da un elegante divano nero, di bersi una birretta a gambe accavallate appoggiato al muro, di mangiare i cappellacci deliziosi e poco minimalisti, di ascoltare suoni e vedere tipi alternativi, normali, sciroccati, amici di vecchissimissima data, di bere un nebbiolo, un manhattan, di mangiare una fetta di mortadella o un muffin vegano. Di andarci anche da soli senza per forza parlare con qualcuno, senza per forza dire o urlare il proprio pensiero, fingendo di vedere all’ultimo la gente che è già li da prima di te; guardando i radical chic poco chic e poco radical, i londostyle che abitano in via arginone, i veri intellettuali, i finti intellettuali, i pittori sottovalutati e quelli sopravvalutati, i nuovi Ligabue, le mode e le contromode, chi è a ferrara perchè ferrara è sua, chi è a Ferrara perchè a Ferrara ci è inciampato; vedere la cuoca meravigliosa e sorridente dalle mani miracolose, scambiare due parole con il barman proprietario con la maglia coi teschi, dallo sguardo pulito e di profonda onestà.
Zuni è Zuni e basta, e sono felice che lo sia, ora più di allora, anche quando chiedo di farmi mettere due dischi.
Delusi?…Vi aspettavate qualcosa di più?
Non dico altro, per chi è curioso ci fara un salto.
Via ragno, non la parte antica e caratteristica, ma quella dove c’è o c’era la ferramenta e il bottegaio quella più street o grunge o più new wave, la parte di Zuni Ok? Ci troviamo lì, io intanto arrivo.
Alla prossima indagine.