di Maria Paola Forlani
“Per la sua paura delle amicizie nuove, che aveva chiamata, per galanteria, paura di dover soffrire”, Swann adduce come scusa per non recarsi da Odette de Crécy, il fatto di avere “in corso uno studio, in verità abbandonato da anni su Vermeer di Delft”. “Quel pittore che v’impedisce di vedermi”, è una delle risposte di Odette, “non ne avevo mai sentito parlare; vive ancora? Si posson vedere opere sue a Parigi, perché io mi possa raffigurare quello che amate…”
Questo accenno di seduzione composto da Marcel Proust nella “Recherche”, introduce insieme all’amore di Swann per Odette, le reali condizioni in cui ancora giacevano, gli albori del XX secolo, il nome e l’opera di Vermeer. Indifferenza e dimenticanza da un lato, voglia di scoprire e di sapere dall’altro. Difatti sarà solo dal 1866 che gli studi di Théophile Thoré, alias William Bürger daranno dignità all’opera del pittore definendolo “la Sfinge di Delft”.
Conoscitore e mercante d’arte, Johannes Vermeer (1632 . 1675) si considerava soprattutto un pittore, eppure dipinse non più di 50 quadri (oggi se ne conservano solo 37). Lavorò solo su commissione e non realizzò mai più di due o tre opere l’anno, il necessario per mantenere la moglie e gli undici figli; oggi è considerato tra i più grandi pittori di tutti i tempi. Delle sue opere riconosciute autografe, nessuna appartiene a una collezione italiana e solo 26 dei suoi capolavori, conservati in 15 collezioni diverse, possono essere concessi in prestito.
A Roma alle Scuderie del Quirinale fino al 20 gennaio 2013, si è aperta la mostra “Vermeer, il secolo d’oro dell’arte olandese” (catalogo Skira) che riunisce, per la prima volta in Italia, otto dipinti del maestro di Delft messi a confronto con cinquanta scene di genere di pittori olandesi del Seicento. L’esposizione è curata da Arthur K.Wheelock e da Walter Liedtke, responsabili rispettivamente del settore Northern Baroque Paintings alla National Gallery di Washington e della sezione European Paintings al Metropolitan, e da Sandrina Barbera, soprintendente per il Patrimonio artistico di Milano.
Le 8 opere di Vermeer in mostra sono: Ragazza con cappello rosso (1665 – 67), Santa Pressede (1655), La stadina (1657 – 1655), Giovinetta con bicchiere di vino (1662 – 60), Donna con liuto (1662 – 61), Giovinetta seduta alla spinetta (1670 – 73), Allegoria della Fede (1670 – 73), Donna in piedi davanti alla spinetta (1670 – 73).
Tra gli artisti contemporanei di Vermeer in mostra sono: Pieter de Hooch, Gerard ter Borch, Gerrit Dou, Carel Fabritius e Gabriel Metsu.
In un clima artistico che vede al posto del mecenatismo il libero mercato delle opere, la protestante Olanda del XVII secolo propone una pittura di genere specializzata in un tema concepito entro confini limitati e rigorosi. Unico nella panoramica contemporanea, Jan Vermeer sceglie invece di estrinsecare, attraverso l’effetto della luce e del colore, l’invenzione poetica. Una luce, questa di Vermeer, che non è affatto artificiale; è precisa, normale, come in natura, così come la potrebbe desiderare un fisico scrupoloso. Il raggio che entra da una parte trapassa lo spazio fino dall’altra parte, quasi a sembrare che la luce provenga dal dipinto stesso. La luce in Rembrandt è color d’oro nelle carni e color marrone nelle ombre. Vermeer è argento nella luce, e nelle ombre color perla. In Vermeer non c’è nero, né scarabocchi né sotterfugi.
Per ogni dove appare chiaro, dietro una poltrona, un tavolo o un cembalo, come accanto alla finestra; ma ogni oggetto ha appena la propria penombra e mescola i propri riflessi alla luce ambiente. A codesta precisione della luce Vermeer deve anche l’armonia dei suoi colori; nelle sue tele come nella natura i colori antipatici, per esempio il giallo e l’azzurro, che ha particolarmente cari, non sono discordi; unisce toni estremamente lontani, passando da quelli più teneri e sommessi all’esaltazione più potente.
Lo splendore, l’energia, la finezza, la varietà, l’imprevisto, la bizzarria, non so che di raro e di seducente, egli possiede tutti codesti doni dei più audaci coloristi, per i quali la luce è una inesauribile maga. Non per niente occorrono Cézanne e il postimpressionismo, il sorgere dell’arte moderna e la rinnovata attrazione verso Piero della Francesca, la poetica di Proust, per entrare con adeguata profondità nell’intimo universo di Vermeer. La straordinaria luminosità dei suoi quadri era dovuta a una tecnica praticamente nuova, basata in parte su esperimenti ottici ma soprattutto sull’osservazione e sulla consapevolezza intuitiva dell’interpretazione dei colori riflessi. Il metodo di rendere lo sfavillio della luce con puntini simili a perle oltre i contorni degli oggetti e del suo unico. E l’uniformità della messa a fuoco dà ai suoi quadri una tale limpidità e oggettività da far pensare a effetti di pennelli di vetro.
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