Si è aperta a Milano al Castello Sforzesco, fino al 25 settembre la mostra dal titolo Bramantino a Milano (Sala del tesoro, Sala della balla). La mostra, promossa dal Comune di Milano-Cultura, Castello Sforzesco e Palazzo Reale, è curata da Giovanni Agosti, Jacopo Stoppa e Marco Tanzi.
Le due sale del castello già ospitano un grande affresco dell’artista, Argo, e i dodici arazzi della collezione Trivulzio. A questo nucleo si associano ora altre opere del Bramantino (Bartolomeo Suardi, forse bergamasco, documentato dal 1480 e morto nel 1530), che prende il soprannome dal rapporto professionale con il Bramante, a sua volta attivo alla corte milanese di Ludovico il Moro. Le opere scelte – dipinti e disegni – provengono da collezioni pubbliche e private di Milano, sono ordinate cronologicamente e consentono di seguire gli sviluppi del lavoro dell’artista – caratterizzato da una vena astratta e venata da mistero – dalle tavole giovanili fino alla Madonna col Bambino e angeli di Brera: un percorso in sintonia con i maggiori raggiungimenti artistici del suo tempo, che collocano la figura del Bramantino ai vertici dell’arte lombarda del Cinquecento.
Nella Crocifissione (1510 circa) di Brera il demonio si inginocchia come fosse un angelo sottomesso a Dio, porgendo un’anima invisibile.
Al di sotto, in lontananza, spicca un rettangolo di cielo inquadrato dalla finestra di un edificio, un’apertura verso un tentativo di geometrizzare la materia celeste del mistero divino. Tra gli astanti dolenti – avvolti da vesti dalle pieghe scultoree – spicca la Maddalena (immagine della Chiesa) che si avvinghia fisicamente alla croce, cingendola con il panno rosso. Intanto, in primo piano a terra, il teschio di Adamo rimanda al posto (denominato Golgota, che nella lingua ebraica significa “luogo del cranio”) dove è stato sepolto l’uomo proveniente dall’Eden.
Il sole e la luna associati alla croce sono simboli della partecipazione del cosmo al dolore per la morte di Gesù o, come scrive sant’Agostino, rivelano ciò che unisce i due testamenti: l’Antico (significato dalla luna) si comprende solo alla luce del Nuovo (il sole). La Madonna delle torri (1520 circa) è una delle innumerevoli opere più enigmatiche dell’artista lombardo. L’enigma della costruzione iconografica resta disponibile per l’interpretazione che sta tra lo sguardo dello spettatore e l’opera.
La consegna della palma aurea a sant’Ambrogio è contrastata dal gesto dell’arcangelo che porge un’ “animula” a Cristo bambino. La palma è emblema della vittoria nel senso che il santo, meritevole di entrare nel regno dei cieli, viene consacrato dal mondo divino. Dominano al centro della composizione la Madonna e il Bambino, impegnati in gesti e sguardi divergenti. Lei si rivolge a Sant’Ambrogio, inginocchiato e a capo scoperto, porgendogli il ramo di palma, a i piedi del patrono di Milano giace, in prospettiva, il corpo di un uomo nudo, barbuto e morto, con una gamba incrociata sotto l’altra: è l’egiziano Ario, promotore di un’eresia, combattuta da Ambrogio, che negava la natura divina di Cristo.
Gesù tende le braccia grassocce verso san Michele arcangelo, titolare della chiesa. Con le mani velate, quest’ultimo tiene due piccole figure umane, pronto a pesarle – per indicarne i destini – sulla bilancia che sta sul largo seggio della Madonna. Ai piedi dell’arcangelo giace, riverso in scorcio e a pancia all’aria, un gigantesco rospo, realisticamente raffigurato, che corrisponde a Lucifero, sconfitto da san Michele con la spada dal pomo dorato, appoggiata sul gradino.
Un ulteriore rapporto allusivo a riferimenti astrologici è testimoniato dal Compianto (1515 – 1520) custodito nella pinacoteca del Castello sforzesco. Cristo viene posto su un blocco marmoreo, ovvero sulla pietra squadrata dell’unzione dei corpi dei defunti. Sullo sfondo si scorge un edificio dodecagonale, presenza metafisica che apre a una dimensione fuori dal tempo e dalla storia, pur significando simbolicamente un tempio astrologico, che rivolge il numero delle sue facce verso lo scorrere del sole nel cielo percorso dai dodici segni dello zodiaco.
Bramantino si era già cimentato con le tematiche astrologiche ideando i cartoni utilizzati dalla manifattura di Vigevano per realizzare i dodici arazzi, detti “dei Mesi” o arazzi Trivulzio, tra il 1504 e il 1509. Per questa sequenza Bramantino ha inventato uno schema compositivo che ricorre e dà unità alla serie: la personificazione del mese al centro della scena – sempre messa in evidenza vuoi dalle dimensioni vuoi da elementi architettonici – intorno a cui si dispongono gli altri personaggi, tra richiami all’antichità, alla mitologia e a prelievi della realtà quotidiana.
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