Eventi e cultura
7 Febbraio 2010
La legge Basaglia nel 1978 vide la chiusura dei manicomi per aprire le porte a strutture più umane

C’era una volta la città dei matti

di Redazione | 6 min

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Franco Basaglia

C’è anche un po’ di Ferrara nella fiction-evento che andrà in onda questa sera e domani in prima serata su Rai Uno “C’era una volta la città dei matti”.
Nella ricostruzione televisiva della figura di Franca Basaglia e della legge che a trent’anni di distanza fa ancora discutere, hanno preso parte alle riprese sul set cinquanta comparse provenienti dei Centri AUSL di Ferrara, Bologna, Ferrara, Forlì e Trieste.
La legge Basaglia nel 1978 vide la chiusura dei manicomi per aprire le porte a strutture più umane, in grado di ridare dignità alle persone alle prese con la malattia mentale e non solo meri “contenitori” fisici.
La fiction, prodotta dalla Ciao Ragazzi di Claudia Mori per Rai Fiction, vede Fabrizio Gifuni nel ruolo di Franco Basaglia, Vittoria Puccini nella parte della paziente Margherita, Michela Cescon nel ruolo dell’infermiera Nives e Branko Dujric (Boris).

Questa la minuziosa trama della fiction proposta dal sito ufficiale della Rai (www.rai.it).
Prima c’era la Città dei matti, il manicomio. Con tutto il suo carico di orrori piccoli e grandi. Letti di contenzione, camicie di forza, celle d’isolamento, elettroshock punitivi, infermieri-carcerieri e malati-carcerati, rapporti sadici fra medici e pazienti. Non un luogo di cura, ma di segregazione, occultamento e cronicizzazione di quello “scandalo” sociale che è sempre stata la malattia mentale. In tutto il mondo occidentale, nessuno aveva mai messo in discussione il manicomio, nessuno aveva mai osato sfidare frontalmente il potere degli psichiatri. Almeno fino all’inizio degli anni ’60 quando, in una città di provincia del Nord, un giovane psichiatra ribelle, emarginato dal mondo accademico, Franco Basaglia, accese quella scintilla che provocò un incendio impensabile fino a qualche anno prima…

Margherita è una ragazza bella e piena di vita. La sua unica “tara” è di avere una madre che vive nell’ossessione della colpa di averla concepita con un soldato americano, che poi è sparito. Per non ammettere nemmeno con se stessa il peso del “peccato” che si porta dentro, la donna lo scarica sulla figlia. E quando le suore del collegio a cui è affidata si lamentano del carattere troppo vivace di Margherita, delle sue prime, normali pulsioni amorose, la fa ricoverare in un ospedale psichiatrico. In pochi mesi, nell’ambiente oppressivo e violento del manicomio, Margherita, da ragazzina piena di vita e curiosità, si trasforma. Diventa una creatura ribelle e ingovernabile, al punto che la tengono in una gabbia come una bestia feroce.

Boris è reduce da una guerra terribile che lo ha ridotto al mutismo. Nessuno sa quali orrori hanno visto quegli occhi neri e profondi, le sofferenze patite da quel corpo possente e gigantesco. Perché Boris è chiuso in se stesso, non parla, non esprime in nessun modo i suoi sentimenti. Ma fa paura. E nel manicomio dove lo portano, invece di aiutarlo, pensano solo a “contenerlo”, a neutralizzare la sua carica aggressiva con elettroshock e camicia di forza. Boris rimane legato ad un letto per quindici anni.

Furlan è un ex partigiano, un uomo mite e buono che ha moglie e figli. Lui in ospedale psichiatrico ci si fa chiudere di sua volontà. Vuole curarsi dalla paura degli attentati che gli è rimasta dalla guerra, dall’alcolismo che gli mina il fisico e la mente. Non immagina che dentro la città dei matti ci rimarrà prigioniero, nutrito a forza con un imbuto, sottoposto a terapie crudeli e devastanti che invece di curarlo lo riducono ad una larva.

Cicca-cicca è come un bambino anche se ha quasi vent’anni. Il manicomio, dove vive sottomesso alle prepotenze di ricoverati e infermieri, è tutto il suo mondo. Chiuso in se stesso, spaventato, vive tremando di paura, seguendo solo i suoi desideri primari.

E poi c’è Nives, che non è una paziente ma un’infermiera. È una brava donna, una madre di famiglia onesta e lavoratrice. Le hanno insegnato che i matti non sono persone, ma poco più che cose: vanno lavati, vestiti, legati e puniti. E lei questo fa, li lava, li nutre, li punisce. E questo trattare gli esseri umani come oggetti, pian piano la svuota dentro, la divora. Nives non si rende conto che il manicomio è un lager che ha il potere di disumanizzare non solo i “matti” ma anche chi li dovrebbe curare e invece è ridotto al rango di carceriere.

Questi, tra gli altri, sono gli uomini e le donne che si trova di fronte Franco Basaglia quando diventa direttore del manicomio di Gorizia. Un posto marginale, a suo modo comodo, dove lo psichiatra potrebbe limitarsi a prendere lo stipendio e continuare a scrivere i suoi libri delegando, come il suo predecessore, ad assistenti e infermieri lo sporco lavoro di amministrare l’ospedale. Ma Basaglia e sua moglie, Franca Ongaro, una donna coraggiosa e colta dell’alta borghesia veneziana, a contatto con quella realtà terribile sono sconvolti. E decidono di cambiarla. Come, non lo sanno, perché il manicomio è una delle istituzioni repressive più durature della storia umana in Occidente. Ma qualcosa si deve fare. A costo d’inimicarsi l’establishment politico e culturale dell’epoca. Comincia così un’avventura straordinaria che porta Franco e sua moglie, ai quali si uniranno altri giovani psichiatri ribelli, a “smontare” letteralmente l’universo concentrazionario della Città dei matti. Un’avventura mai tentata prima, piena di rischi e di pericoli il cui esito è tutt’altro che certo.

Con la direzione Basaglia viene eliminata ogni tipo di contenzione fisica, sospese le terapie di elettroshock. Vengono aperti i cancelli, lasciando così i malati liberi di passeggiare nel parco, di consumare i pasti all’aperto, persino di lavorare. S’inizia, soprattutto, a prestare attenzione alle condizioni di vita degli internati e ai loro bisogni. Si organizzano le assemblee di reparto e le assemblee plenarie. Si aprono spazi di aggregazione sociale, cade la separazione coatta fra uomini e donne. Un amministratore locale del tempo, venuto in visita all’ospedale di Gorizia, così racconta: “Potei vedere un ospedale vivo, pieno di gente che non si distingueva: malati, medici, visitatori, volontari, infermieri, non era facile riconoscerli, individuare i loro ruoli. Ma soprattutto vidi come, pur essendo un “intellettuale”, Basaglia fosse capace di comprendere i bisogni più elementari dei malati. Li conosceva tutti. Entravano nel suo ufficio senza essere annunciati, la porta era sempre aperta e c’era un via vai continuo. Così come, nel parco, era un fermarsi a ogni passo, a salutare, a chiacchierare con l’uno o con l’altro”.

Grazie al nuovo corso Margherita, Boris, Cicca-cicca e tanti altri degenti come loro si riaffacciano alla vita. E il racconto, attraverso le loro vicende, diventa un palpitante percorso umano e sentimentale in cui uomini e donne, destinati a finire i loro giorni rinchiusi, riconquistano, tra successi e cadute, giorno dopo giorno, una vita degna di essere vissuta: un lavoro, una casa, l’amore. Anche gli infermieri come Nives, dapprima avversari del nuovo direttore, acquisiscono una nuova coscienza e gli si affiancano nel processo di trasformazione del manicomio. I protagonisti di questa vicenda epica pagheranno però un alto prezzo esistenziale e personale: difficoltà economiche, problemi familiari, separazioni segnano le storie di medici e infermieri che hanno deciso di seguire Franco nella sua lotta…

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