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Giuseppe Toscano
È a processo per difendersi dall’accusa di aver diffamato, ma in aula è lui ad attaccare con un grande accusa contro il «sistema» Carife.
Giuseppe Toscano, avvocato, ex consigliere comunale e provinciale, ex membro molto polemico e attivo dell’assemblea Carife, è a processo – difeso dall’avvocato Claudio Maruzzi – per aver offeso alcuni dipendenti Carife con un post su Facebook. Ma nel momento in cui ha accettato di parlare per difendersi, sottoponendosi all’esame davanti al giudice Carlo Negri e al pm Barbara De Rossi, la sua difesa è diventata un attacco.
Quelle frasi sono state scritte nel 2013, a banca appena commissariata, e vennero considerate diffamatorie da alcuni dipendenti che lo hanno querelato (e che non sono parti civili per un problema formale nell’atto della loro costituzione). Per Toscano – che le riconosce – si trattò solo di fare ironia, della «goliardia», come l’ha definita lui stesso, in una situazione molto calda, «di grande avversione dei cittadini». Ma non furono farina del suo sacco: «Le copiai, tant’è che si trovano ancora, e poi le pubblicai su Facebook. In termini moderni si direbbe che le ho condivise». Frasi comunque «non indirizzate a nessuno di specifico, c’erano 150 filiali della Carife e io non conosco nessun dipendente».
Ma non è questo il centro della sua auto-difesa. Perché Toscano spiega da cosa nascesse il tutto, ovvero dalla sua voglia di contrastare pubblicamente il «sistema» Carife. «I nostri soci – afferma – sono stati derubati da azioni criminali. Nel 2009 il patrimonio della Cassa era di 600 milioni con una massa amministrata di 15 miliardi. Poi hanno distribuito 150 milioni di dividenti e lì è nato tutto. Io sono stato l’unico a contestare i bilanci in assemblea, ero l’unico a leggerli perché li distribuivano all’ingresso dell’assemblea mentre io andavo 15 giorni prima a vederlo, fascicolo per fascicolo. Mentre i dipendenti votavano a favore».
Ma il nodo cruciale riguarda la vendita delle azioni per l’aumento di capitale e delle obbligazioni per le quali «c’è una responsabilità anche dei dipendenti: il livello medio dei clienti è anziano, facilmente turlupinabile. Mi offrono azioni che prendono il 2% o obbligazioni che prendono il 4%, cosa prendo?».
A suo sostegno, la testimonianza di una signora di quasi 80 anni, cliente Carife per 50 anni, che ha raccontato di come le avessero venduto azioni e obbligazioni (quelle bruciate dal decreto salva banche) con la ‘scusa’ che così non avrebbe dovuto pagare per la tenuta dei suoi conti in Carife. E lei, per estrema fiducia, accettò. Ma anche il racconto del noto imprenditore Giulio Barbieri, anche lui testimone della difesa, che ha raccontato di come l’ex presidente del Cda Sergio Lenzi, insieme ad altri dirigenti (tra cui Daniele Forin, nominato esplicitamente durante la testimonianza), lo contattò quando lui decise di chiudere i rapporti con Carife per evitare lo smacco di avere un membro della Fondazione senza conti con la banca. Barbieri ha detto che gli fecero firmare una lettera d’intenti per l’acquisto di azioni (o per un finanziamento, non si è capito bene) per 50mila euro (la cosa poi non andata avanti) e poi una fideiussione per una compagnia, che lui concesse. «Dopo due mesi non accadde nulla, poi il direttore commerciale, imbarazzato, mi disse che non avevano approvato il finanziamento. Ho capito dopo che si sono serviti di me, credo portando la lettera d’intenti alla Banca d’Italia, per far intendere che la città supportava ancora la banca. E da altri ho saputo che gli facevano aumentare i fidi, solo che poi l’aumento finiva in azioni e i fidi venivano revocati».
Ma per Toscano – che più volte ha rivendicato di aver segnalato nel tempo alle autorità che le cose nella Cassa non andavano affatto bene – non è cosa solo recente: «Carife aveva il viezietto di rifilare titoli tossici, come è accaduto con Parmalat, Cirio e bond argentini. Quando vendevano le azioni, sebbene ci fosse già il Mifid si guardavano bene di fare il fissato bollato (modulo per la stesura dei contratti) che poi, una volta arrivati i commissari, bisognava pagare per averlo, non davano il regolamento. Nessuno sapeva cosa prendeva, se non sulla buona fede e la fiducia. Avevano carta straccia e la spacciavano per oro».
«Quelle parole – afferma Toscano, riferendosi di nuovo al suo post su Facebook – sono rivolte a tutto il sistema, non solo ai dipendenti. Ho usato Facebook dato che non si facevano più le assemblee, essendo la banca commissariata. Ce l’avevo con quelli che vendevano oro per la carta straccia, ma non ho mai accusato singoli dipendenti. La responsabilità – afferma ancora Toscano – è delle categorie economiche che controllavano la Fondazione, del Cda e dei dipendenti. Le mie battute sono modeste rispetto a quello che uno avrebbe potuto dire».
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