I sovietici invasero Budapest il 4 novembre 1956 attuando l’operazione Turbine, con circa 200.000 soldati e 4.000 carri armati e Nagy si rifugiò nell’ambasciata jugoslava, dove gli era stata offerta protezione, non prima di aver lanciato alle 5,20 dal suo ufficio governativo un accorato messaggio captato dalle radio occidentali: “Qui parla il Primo ministro Imre Nagy. Oggi all’alba le truppe sovietiche hanno aggredito la nostra capitale con l’evidente intento di rovesciare il governo legale e democratico d’Ungheria. Le nostre truppe sono impegnate nei combattimenti. Il governo è al suo posto. Comunico questo fatto al nostro paese e al mondo intero”.
Il 22 novembre 1956, dopo diciotto giorni di permanenza nell’ambasciata jugoslava di Budapest, Nagy e numerosi suoi collaboratori furono vilmente consegnati da Tito ai sovietici e trasportati nel quartier generale del KGB. Da lì furono deportati in Romania.
Il 17 giugno 1958 un comunicato del ministro ungherese della giustizia informava che Nagy era stato condannato a morte e giustiziato il giorno prima.
I capi di tutti i partiti comunisti del mondo erano stati invitati a pronunciarsi sul verdetto e soltanto il polacco Gomułka si era astenuto, mentre Maurice Thorez e Palmiro Togliatti avevano ritenuto più opportuno votare sì. Nell’approvare la condanna a morte nel novembre 1957, durante le celebrazioni a Mosca del Quarantennale della Rivoluzione d’Ottobre, il segretario del Partito Comunista Italiano ottenne però che l’esecuzione fosse rinviata a dopo le elezioni politiche italiane, che si sarebbero tenute il 25 maggio 1958.
Realpolitik o miseria morale?
Nel 1956 Pietro Ingrao aveva scritto su “l’Unità” : «quando crepitano le armi dei controrivoluzionari, si sta da una parte o dall’ altra della barricata». E Ingrao aveva scelto i carri armati sovietici!
Meditate, gente. Meditate!
Paola Ferrari