Eventi e cultura
13 Luglio 2015
Intervista al prolifico attore premiato con il Telesio d’Argento a Cosenza

Cinema, il giovane Muroni è la rivelazione dell’anno

di Redazione | 7 min

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Molti avranno già sentito parlare di Stefano Muroni per la prima scuola di recitazione in Italia per adolescenti (il Centro preformazione attoriale da lui creato a Ferrara) o per il film sul terremoto in Emilia. Molti meno ne conoscono però gli ultimi progressi e le attestazioni raggiunte in così poco tempo. Classe 1989, Stefano Muroni è cresciuto a Tresigallo. Nel 2011 si diploma in recitazione al Centro sperimentale di cinematografia, la storica scuola di cinema di Roma, diretto da Giancarlo Giannini.

Interpreta Edmondo Rossoni nella trasposizione teatrale di Canale Mussolini (romanzo di Antonio Pennacchi, Premio Strega 2010); scrive e interpreta il cortometraggio “Tommaso”, sul tema dell’eutanasia, in cui recita accanto a Monica Guerritore e Giulio Brogi; interpreta un giovane soldato idealista in durante gli anni della Grande Guerra “Amore tra le rovine” di Massimo Alì Mohammad e è protagonista del lungometraggio “La notte non fa più paura – Terremotati”, opera prima di Marco Cassini. Ieri sera, nella città di Cosenza, l’attore ferrarese ha ottenuto un altro importante premio, le cui motivazioni fanno proprio intendere il carattere e la strada che il giovane Muroni ha deciso di intraprendere. L’abbiamo intervistato per sapere di più su questo riconoscimento e sul suo lavoro.

Stefano, iniziamo intanto col capire che cos’è il Telesio d’Argento, premio che ti è stato conferito poche ore fa.

“Da poco meno di una decina d’anni la città di Cosenza ha dato vita alla Primavera del cinema italiano, manifestazione che premia attori e attrici che si sono particolarmente distinti nell’anno. È un premio che può essere alla carriera, come è stato per Giancarlo Giannini, Isabella Ferrari e Stefania Sandrelli, ma che in passato è stato vinto anche da Riccardo Scamarcio, Kim Rossi Stuart e Luca Argentero. Quest’anno hanno deciso di conferirlo a me, che sono stato premiato come “talento rivelazione cinematografica dell’anno”.

Cosa intendeva la giuria con il termine talento?

“I componenti della giuria hanno scelto il termine talento e non quello di attore proprio perché per loro sono riuscito a creare, nonostante la giovanissima età, una “nuova e moderna immagine del lavoro dell’attore; per aver scelto, in un’epoca di anti cultura imperante, la difficile strada della qualità; per aver trattato – attraverso lungometraggi, cortometraggi e videoclip – in maniera sempre acuta e mai banale, temi sociali attuali e delicati, come la meritocrazia e l’illegalità all’interno delle università italiane, l’eutanasia e il terremoto dell’Emilia, e per non essersi dimenticato delle radici storiche del nostro Paese, ideando e partecipando a progetti su la Grande Guerra e i 70 anni dalla Liberazione; per aver dimostrato una rara sensibilità, profonda intensità e grande talento in ogni sua interpretazione”. Queste sono le motivazioni della giuria, ma sono anche gli elementi sui quali ho da sempre improntato la mia carriera, avendo un’idea ben precisa su come voler operare nel mondo del cinema. Non ho mai voluto solo recitare, ma ho sempre lavorato anche all’idea iniziale del progetto cinematografico, alla sua scrittura, a cercare i finanziamenti in prima persona per produrlo. La giuria ha colto tutto questo, motivo di orgoglio e piacere per me”.

E l’attore Stefano Muroni, guardando alla sua giovane carriera, come la vede?

“Sono sicuramente un attore che ama poco scendere a compromessi, per questo ho sempre deciso di partecipare a lavori che non fossero di scarsa qualità. Non che io voglia snobbare a prescindere prodotti più commerciali, ma cerco sempre lavori che abbiano alle spalle una storia interessante, specialmente quelli con un’aderenza all’attualità, che possano far pensare. Che poi, secondo te, perché uno fa film?”

Questo me lo dovresti dire tu…

“Perché solo il cinema ha il potere di sensibilizzare su un tema importante in maniera immediata e d’impatto, che vada a incidere sulle emozioni e sulla sensibilità di chi guarda il film. L’arte ha questo compito per me e io recito per questo. Una volta mi capitò di recitare la parte di un omosessuale, con la sua difficoltà di poter adottare un figlio. Dal pubblico, a fine spettacolo, una signora che era contraria all’adozione per le coppie gay mi si è avvicinata, dicendomi che per la prima volta aveva capito il dramma vissuto da queste persone. Attraverso il teatro e il cinema si può avviare un processo di sensibilizzazione, oserei dire di alfabetizzazione. Questo comporta un ragionamento sulle cose, che magari prima non si voleva o non si era in grado di fare. Per questo mi piace partecipare a progetti che possano scalfire gli animi delle persone”.

Ma c’è la concreta possibilità di farlo nella realtà dei fatti? In un periodo di crisi come quello attraversato ora, dove anche Cinecittà sta diventando un mero parco giochi degli antichi splendori, come vedi la scena cinematografica italiana attuale?

“La nostra generazione avrebbe delle scusanti se non esistessero dei precedenti storici, ma i precedenti esistono eccome. Il neorealismo ci insegna che, in un’Italia distrutta, bombardata, dilaniata, in cui la gente moriva di fame, c’era un ragazzo sui trent’anni che ha preso due luci, due telecamere e ha fatto Ladri di biciclette, premio Oscar. Due luci e due telecamere, capisci? Allora, con questo precedente, non abbiamo proprio scusanti. I film ora si possono fare coi telefonini e col computer, quindi abbiamo anche delle potenzialità che prima non esistevano. Ci siamo dimenticati che il cinema si può fare davvero con poco e negli ultimi anni si è lucrato troppo sul cinema. Questo non vuol dire che i fondi alla cultura devono esserci, ma devono essere ben distribuiti. E i finanziatori che investano sull’arte si trovano, cercandoli. Rimango dell’idea che se uno ha la voglia di fare, il suo progetto lo porta avanti e raggiunge il suo obiettivo. Non dimentichiamoci poi che il cinema è una grandissima pubblicità. L’unico petrolio che l’Italia ha è la cultura, e può fare soldi solo con essa. Il cinema è un’industria ma spesso, sia noi che gli investitori, ce lo dimentichiamo”.

Dopo aver fatto un film sul terremoto in Emilia, aver scritto un libro sulla Tresigallo di Edmondo Rossoni e recitato in Amore tra le rovine, pensi che questo territorio abbia ancora storie da poter tirar fuori?

“La nostra terra è stracolma di storie meravigliose. È una terra che conosco molto bene e io vengo da lì, quindi batterò ancora molto il chiodo su fatti e storie della mia provincia. C’è ancora molto, moltissimo da raccontare su Ferrara e dintorni, tanto che a volte mi chiedo: ma come è possibile che non ci abbia ancora pensato nessuno a scrivere una cosa su quella vicenda o su quell’altra? Vorrà dire che lo farò io! (ride, ma non scherza). C’è ancora molto posto per la mia terra”.

Ora però vivi a Roma. Ferrara ha molte storie da offrire, ma viverci (e viverle) è forse più difficile?

“Io ho creato il Centro preformazione attoriale a Ferrara proprio per questo, per mandare più gente a Roma. Preformo i ragazzi lì, ma poi devono assolutamente andare altrove. È una terra che sembra avere tutto, dove non si sta male, ma che a lungo andare ti distrugge. C’è molto poco e quello che ti offre magari sul momento pensi sia tanto, poi esci e vedi che altri posti possono darti dieci volte tanto. Se sei bravo, se vali, devi andare via da Ferrara, ma ciò non vuol dire che non puoi continuare a raccontarne le storie, la storia e i personaggi”.

Pochi giorni fa Patrizia Moretti, la mamma di Federico Aldrovandi, ha deciso di dire basta a ulteriori procedimenti legali, rimettendo le querele contro Paolo Forlani, Franco Maccari e Carlo Giovanardi. Come hai vissuto la vicenda di Aldrovandi? Questa può essere una storia da dover raccontare al cinema?

“La vicenda mi ha segnato moltissimo. Ricordo i giorni dopo l’uccisione, alcune mie compagne di liceo erano amiche del fratello di Federico. Dicevano in classe “l’hanno ammazzato” quando ancora l’idea in giro era quella del “è morto per droga”. Ricordo anche i vecchi al bar del mio paese, che dicevano davanti al giornale: “beh, par forza che lan cupà, gl’era mez indrugà”. Ero al primo anno di Centro sperimentale a Roma, quando si parlava di un progetto per una serie televisiva, poi non se ne fece più nulla, anche se ci sono ancora le sceneggiature. Poi poco dopo uscì il documentario di Vendemmiati, È stato morto un ragazzo, ma è un documentario, non un film. Anche su Sacco e Vanzetti uscirono molti documentari, ma l’America chiese scusa solo dopo il lavoro di Montaldo, perché il film rimane sempre il mezzo più potente, ricordatelo.

Ora tanti, quando si parla di Federico, dicono “Ma basta, se ne è parlato troppo”. A volte ci penso, sarebbe giusto farci un film, ma è un fatto molto delicato. Come col terremoto, d’altronde. Tanti pensano l’abbia fatto perché è un tema che ti può dare riscontro, visibilità. Le mie motivazioni sono invece molto ben più forti e profonde, altrimenti non avrei fatto un anno e mezzo di giri per l’Emilia con la mia Peguot 207 a cercare finanziamenti, a conoscere i parenti delle vittime, gli imprenditori, a creare un cast e metterlo su con il regista Marco Cassini, che di terremoto ha vissuto quello della sua terra, L’Aquila. Mi piacerebbe lavorare sulla storia di Federico, ma è una situazione molto complessa, anche se il cinema, ripeto, è l’arma più forte che esista. Io più ci penso e più non me lo spiego. Per me questo rimane un fatto inspiegabile. Un ragazzo che a 18 anni sta tornando a casa sua, e che poi a casa sua non ci torna più. Se ci penso risulta ancora incredibile”.

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