Eventi e cultura
21 Marzo 2015
Il filosofo a Palazzo Schifanoia per la presentazione del libro di Giulio Busi e Raphael Ebgi

Cacciari a Ferrara sulle tracce di Pico della Mirandola

di Redazione | 3 min

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(foto di Cristiano Luciani)

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Perché per Giovanni Pico della Mirandola è necessaria la cabala? Essa è semplicemente un valore aggiunto al ragionamento filosofico o ha ben altre e significative valenze? Queste sono solo alcune tra le domande che si sono posti ieri Marco Bertozzi e Massimo Cacciari, che insieme agli autori del libro “Giovanni Pico della Mirandola. Mito, magia, qabbalah” – Giulio Busi e Raphael Ebgi – hanno ripercorso la figura del giovane ‘Conte della Concordia’, attorniati dagli affreschi di palazzo Schifanoia.

Secondo Massimo Cacciari, l’umanesimo deve essere pensato come un periodo drammatico, perché “è un periodo di profonde crisi, di contrapposizioni e contraddizioni, in cui linee incompatibili di pensiero si confrontano”. E proprio tra la necessità di un confronto e la consapevolezza di questo moto di contraddizioni si inserisce Pico della Mirandola.

La soluzione per Pico è nella cabala, che è un qualcosa di necessario, perché gli permette di scoprire la realtà. “Bisogna restituire un incontro tra la tradizione umanistica e quella cabalistica – evidenzia Cacciari – perché è questa la prospettiva generale di quel periodo, il tutto e la parte”. Per Cacciari, la critica del giovane filosofo rispetto al pensiero del suo tempo verte principalmente sul tema della pace, che per Pico della Mirandola non deve essere quell’affermazione di una parte sulle altre, come sostiene il pensiero di Ficino e in cui l’uno è nella religione cristiana. Questo per Cacciari altro non è che “l’affermazione prepotente di un membro dell’unità rispetto all’Uno”, mentre la novità in Pico è pensare a una “sinfonia di elementi che devono reciprocamente riconoscersi. Non è la cabala che si afferma contro le altre discipline, essa è anzi il grande grembo in cui questi distinti si riconoscono, in quanto tutte manifestazioni necessarie dell’Uno”.

“Bisogna dunque riscoprire il platonismo alla luce delle scoperte cabalistiche: questo è l’umanesimo, di cui Pico avverte la crisi. Ce la fa? No, non ce la fa – conclude Cacciari -, ma lascia questo grande problema, che è molto di più che un concetto di tolleranza: la sua idea di pace naufraga, ma ciò che non finisce è l’idea in cui la ricerca della nostra identità è da trovarsi in una dialettica in cui non v’è gerarchia. Ed è esattamente quella che nei momenti di crisi ritorna ed esige di essere pensata”.

“Pico è sì un autore che fallisce: lui vuole la discussione, è impaziente, è giovane – spiega Giulio Busi, fra i maggiori esperti a livello internazionale di ebraismo medievale e rinascimentale -. Pico è però anche un vincitore, perché scopre non solo un modello verticale e genealogico di cultura, che intuisce la verità dagli inizi del sapere fino al cristianesimo, ma percepisce anche un sapere orizzontale, compresente tra le varie culture. Il suo è un sogno mistico che gli inquisitori non capiscono, o capiscono fin troppo bene: Pico è un Adamo liberato, inserito all’interno di un paradiso di conoscenze che vivono compresenti, e la sua è una grande lezione di libertà, che proprio per questo viene subito azzerata. Pico della Mirandola, seppur molto giovane, è un autore profondissimo, che spera in una pace diversa da quelle sino ad allora prospettate. Per questo oggi è così importante riprendere il suo pensiero da dove è stato lasciato cadere”.

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