Economia e Lavoro
1 Novembre 2014
Il gruppo industriale sempre più lontano dai petrolchimici italiani. E a Ferrara si ferma un impianto

Eni investe nel cracking, ma in Francia

di Ruggero Veronese | 4 min

petroSempre più lontana dall’Italia, sempre più lanciata verso i mercati internazionali, Eni investe 150milioni di euro nella riconversione dell’impianto cracking di Dunkerque, in Francia. Il tutto mentre i petrolchimici del ‘quadrilatero padano’ cominciano a subire le prime preoccupanti conseguenze della definitiva chiusura dell’impianto di Porto Marghera, con l’impianto n. 10 del polo chimico ferrarese che pochi giorni fa è stato costretto a uno stop di più di 24 ore per le difficoltà di approvvigionamento dei monomeri di base necessari agli stabilimenti.

Le nubi sul principale centro industriale ferrarese si erano già addensate da tempo. Almeno da un mese e mezzo, quando a metà settembre l’amministratore delegato di Versalys (società del gruppo Eni) aveva ufficializzato lo stop definitivo al cracking di Porto Marghera. La notizia degli investimenti nell’impianto di raffinazione francese suona però come un ulteriore schiaffo da parte del colosso industriale ai lavoratori italiani, sempre più preoccupati per il progressivo smantellamento degli stabilimenti della penisola e per una linea industriale che sembra più indirizzata verso la valorizzazione del gruppo sui mercati finanziari che verso gli interessi del suo principale azionista: lo stato italiano, che controlla il 30% del gruppo attraverso il Ministero del Tesoro e la Cassa Depositi e Prestiti.

Ne sono convinti anche i principali sindacati all’interno del petrolchimico, che commentano senza troppi giri di parole il “tradimento degli accordi” e “l’improvviso cambio di indirizzo” di Eni. Un cambiamento che secondo Mauro Cavazzini della Filctem – Cgil e Stefano Mantovani della Femca – Cisl coincide in modo piuttosto evidente con il passaggio di consegne al governo italiano tra Enrico Letta e Matteo Renzi, che poche settimane dopo la nomina ha rinnovato i vertici delle principali aziende a partecipazione pubblica (in Eni presidente e amministratore delegato sono ora rispettivamente Emma Marcegaglia e Claudio Descalzi).

“L’investimento in Francia? Lo vediamo come l’ennesima conferma della volontà di dismettere le attività industriali nel nostro paese – commenta Cavazzini -, e non può che aggiungere ulteriori preoccupazioni. Vedo grandissime contraddizioni nelle dichiarazioni dei vertici Eni negli ultimi otto mesi”. Per chi non avesse seguito il lungo tira e molla sull’impianto cracking, ricordiamo infatti risale solo al febbraio scorso l’accordo tra Eni e sindacati per il riavvio dell’impianto cracking, fermo (almeno ufficialmente) per problemi di concessioni ambientali relativi a una centrale energetica. “Sembra passata una vita, ma parliamo di accordi sottoscritti solo otto mesi fa”, continua Cavazzini, che non si tira indietro di fronte a un commento sulle spiegazioni ‘politiche’ della vicenda. “Il fatto che ci sia questa riorganizzazione complessiva delle varie società, con l’accorpamento in un’unica divisione di quelle in perdita come Versalys o Syndial, fa pensare alla creazione di una ‘bad company’ da presentare ai mercati, molto utile al riposizionamento azionario in vista di una futura vendita di quote da parte del governo. Se c’è un nesso tra il nuovo piano di Descalzi e le strategie del governo Renzi? Diciamo che il dubbio viene. Se poi guardiamo cosa sta succedendo alla acciaierie di Terni sembra davvero che sia in atto un piano per lo smantellamento dell’industria in Italia”.

Un pensiero condiviso anche da Mantovani: “A mio avviso – afferma il segretario Femca – la strategia del governo è di trasformare Eni da società industriale a società di servizi, e così chiude le raffinerie e compra benzina, gasolio e cherosene per poi distribuirlo, come già faceva col metano. E mi pare che anche con i monomeri la tendenza sia questa. Un nesso con il cambio di governo? Assolutamente si: sono certo che la doppia anima del Pd stia influenzando Eni: fino al cambio di vertice c’era chi aveva la visione di un’azienda che deve produrre ed essere un traino per l’economia nazionale, ma il cambio di rotta ha fatto emergere un’altra posizione, secondo cui il gruppo deve concentrarci più sulle attività estrattive e di logistica”. Attività ben più redditizie dell’industria chimica (che nel 2013 ha contribuito solo per 6 miliardi di euro ai 114 miliardi di ricavi complessivi), ma che per loro natura porteranno il colosso italiano sempre più lontano dalla penisola.

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