Cronaca
24 Agosto 2014
In viaggio con Don Bedin nelle comunità dove i profughi, oltre all'ospitalità, trovano anche stimoli lavorativi

Mare Nostrum: “L’accoglienza non sia passiva”

di Ruggero Veronese | 6 min

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Don Bedin assieme ad alcuni profughi africani a Pontelagoscuro

“Non possiamo tenere le persone a bivaccare per sei mesi se nel frattempo non pensiamo anche al loro futuro”. Si potrebbe riassumere con questo semplice motto la filosofia con cui Don Domenico Bedin, presidente delle associazioni Viale K e Filippo Franceschi, gestisce le strutture che ospitano i profughi dell’operazione Mare Nostrum. Le due onlus rientrano nella lista degli enti convenzionati con l’Asp, che coordina l’accoglienza di immigrati e richiedenti asilo sul territorio ferrarese dopo il primo approdo al centro regionale di Bologna. Ma le differenze con la gran parte dei centri di accoglienza diffusi sul territorio provinciale – e non solo – balza presto agli occhi.

Nel descrivere le linee guida del progetto Mare Nostrum avevamo già evidenziato le principali critiche mosse dagli stessi operatori delle associazioni: un’impostazione perlopiù assistenzialista, che non prevede percorsi formativi o di inserimento nel mondo del lavoro. La strada scelta da Bedin si muove nel senso opposto, cercando di rimediare ‘in casa’ alle lacune generali del progetto. Le associazioni Viale K e Filippo Franceschi hanno quattro comunità di accoglienza per i profughi (quasi una cinquantina al momento) di Mare Nostrum, tutte situate in zone di campagna e con campi coltivabili dove i nuovi arrivati possono aiutare nei lavori quotidiani. “Il problema di Mare Nostrum – spiega il parroco ferrarese – è che le sue direttive riguardano solo l’accoglienza immediata, attraverso strutture di tipo alberghiero. È un’accoglienza di tipo ‘passivo’, che permette di risolvere velocemente la prima fase dell’emergenza. Ma è anche un limite perchè dopo sei mesi, quando queste persone finiscono sulla strada, i problemi si ripropongono in maniera ancora più urgente”.

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Alcuni ospiti dell’associazione Viale k

Problemi che non si limitano alla disoccupazione ma che – com’è facile immaginare – innescano una spirale che può portare a un rapido degrado sociale. “Bisogna dare l’esempio e i nostri ospiti devono sentirsi utili: molti di loro non vogliono essere un peso per la società e ci chiedono il permesso di dare una mano nei campi. Ma cosa succede se invece di abituarli in questo modo li sistemiamo in appartamenti in centro, con vitto e alloggio garantiti? Lì la passività è assoluta: queste persone non possono nemmeno cercare un lavoro finchè sono nel programma di accoglienza e per sei mesi si ritrovano a girare per i bar del centro guardando la gente che esce a fare aperitivo e gioca con i telefonini. Penseranno che è proprio bella la vita in Italia e quello sarà il modello a cui poi punteranno”.

Molto meglio, secondo Bedin, formare una comunità in cui coltivare – oltre che la terra – anche una serie di buone pratiche e qualche sano scambio culturale. “Ed è importantissimo – continua il parroco – cercare di mettere a frutto le loro competenze: per esempio abbiamo scoperto che i due ragazzi indiani che ospitiamo sanno fare cose straordinarie nei campi. All’inizio credevamo che fossero un po’ sfaticati perchè non volevano avvicinarsi alle zucchine. Poi, superate le barriere linguistiche, abbiamo capito che avevano semplicemente paura: nella loro zona raccogliendo la verdura in questo modo si rischia di essere morsi dai cobra”.

Bedin ci guida tra la Casa dell Ginestra di Viale K e la comunità “Casona 2” della associazione Filippo Franceschi, due dei centri convenzionati con Asp per l’operazione Mare Nostrum, coordinati da due ragazzi albanesi arrivati più di dieci anni fa come ospiti, e che da allora si sono laureati e hanno messo su famiglia ma hanno deciso di continuare ad aiutare ‘il don’. Nel primo centro gli ultimi quattro arrivati sono originari del Gambia, dell’Afghanistan e dalla regione indiana del Punjab. Le loro storie restano impresse nella mente. I tratti orientali di Mohammed non lasciano trasparire le sue origini afghane, “perchè voi conoscete poco gli Hazara – racconta il giovane profugo -. Nella mia zona il 20% della popolazione è come me”. Mohammed ha solo 18 anni ma è in viaggio dal 2009, quando ha seguito il padre prima in Turchia e poi in Grecia. Dopo aver perso anche l’ultimo genitore, un anno e mezzo fa, ha deciso di tentare la traversata verso l’Italia. “Siamo andati via dall’Afghanistan per salvarci la vita, avevamo paura a restare nel nostro paese – racconta -. Ora sto cercando di imparare l’italiano (per adesso comunica in inglese, ndr) e provo ad aiutare in questa fattoria: qui mi trovo bene e non c’è nessun problema tra noi musulmani e i cristiani. Mi piacerebbe poter riprendere a disegnare: in Grecia facevo ritratti, il mio sogno sarebbe frequentare un’accademia”.

unnamedSogni di ragazzi normali. Come quelli di Youssuf, 39 anni, che ha perso in genitori in Gambia 10 anni fa e poi è stato investito dagli eventi in Libia. “Sono solo, i miei parenti sono tutti morti – racconta dopo aver rotto qualche indugio -. In Libia ho lavorato per cinque anni come camionista, poi tre anni fa sono cominciati i problemi. Se solo potessi trovare un lavoro qua in Italia! Vorrei solo avere un lavoro e vivere in pace”. Gli appelli alla pace e al lavoro sono i più frequenti. Anche i due profughi indiani si erano trasferiti in Libia, dove lavoravano nella asfaltatura e manutenzione delle strade. Ma la guerra e le tensioni etniche, ancora una volta, hanno spezzato la loro provvisoria stabilità: “Quando eravamo in Libia, nell’ultimo periodo, venivano i guerriglieri con i kalashnikov e ce li puntavano addosso per avere i nostri soldi. È successo cinque volte, se non li pagavamo ci sparavano”.

Vite e storie diverse, che si incrociano nei barconi diretti in Europa nel viaggio della disperazione. Alla ‘Casona 2’ di Pontelagoscuro si concentra la comunità africana: soprattutto nigeriani, ma anche qualche senegalese e un camerunense, Alexandre. “Sono un meccanico – ci racconta -, ho lavorato prima in Grecia e poi in Serbia. Mi trovo bene in questa comunità: mi piace lavorare, ma non ho ancora nessun contatto di lavoro per quando uscirò da qui”. Intanto una decina di ragazzi nigeriani si raduna attorno a don Bedin per parlare del proprio passato e delle proprie speranze: tra loro c’è chi ha esperienze come agricoltore, cuoco, meccanico, operaio. “Siamo scappati dalla Nigeria per le tensioni religiose contro i cristiani: i terroristi del Boka Haram (un gruppo jihadista attivo nell’Africa Centrale, ndr) fanno la guerra santa e uccidono chi non si converte. Non avevamo alternativa. Ora ci piace lavorare in questi campi e sarebbe bello riuscire a restare insieme anche dopo”. Tra i ragazzi africani si crea un’atmosfera allegra e tutti fanno a gara per mettersi in posa per le fotografie. Per un attimo la paura per quello che riserva il futuro passa in secondo piano: “Ora, mentre siamo in questa comunità, ci sentiamo in cima al mondo. Ma dovete scriverlo, è importante: dovete aiutarci a trovare un lavoro. È l’unica cosa che chiediamo”.

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