Lettere al Direttore
11 Gennaio 2014

Critiche al Museo del Risorgimento

di Redazione | 3 min

L’acquisto del biglietto d’ingresso ad un Museo consente di visitarne le sale e magari di fruire dei servizi igienici, ma niente di più. Non dà licenza di discutere col personale su eventuali scelte espositive sbagliate, o per cialtronate nella presentazione degli oggetti conservati. Più o meno come succede nei cinema, dove non è previsto che gli spettatori delusi vadano a sbraitare con la cassiera. Cinema normali, s’intende. Dopo qualche mese dall’apertura di un ipotetico cinematografo in cui venissero proiettati soltanto spezzoni malandati del film muto “La corazzata Potemkin”, è certo che in sala vi entrerebbe solo la polvere. E il gestore di quella sala fallirebbe.

Non fallisce mai invece, a dispetto del buon senso, dell’economia e della cultura, un’analogia al cinema Potemkin costituita dal Museo del Risorgimento e della Resistenza di Ferrara, che mostra didascalie redatte al minimo sindacale per la nomenclatura e mancanti del tutto di spiegazioni, buone si e no per gli extraterrestri, non certo ad illustrare significati reconditi degli oggetti esposti agli umani eredi di quella storia di cui il Museo dovrebbe farsi testimone. Per il quale:

passi che non sia segnalato su pavimento e pareti il verso di percorrenza nella visita museale: la comprensione levogira è identica alla destrogira quando entrambe corrispondono ad intenzioni didattiche inesistenti;

passi che due fucili della prima guerra mondiale posti sulla medesima rastrelliera siano chiamati l’uno “carabina”, l’altro “fucile” pur essendo inequivocabilmente entrambi dei fucili (nella stessa sala ci sono anche delle carabine): i nomi sono pur sempre delle convenzioni opzionali;

passi che i tessuti di antichi drappi ed indumenti stiano disfacendosi sotto le luci sempre accese nelle vetrinette: debbono ancora inventare la legge che obblighi all’impiego degli interruttori ad infrarossi;

passi che dozzine di raccoglitori di comunicati e giornali d’epoca, disposti su tavolini da salotto accostati, siano privi di elenchi (un must per gli storiografi), per cui gli interessati ai contenuti dovrebbero sfogliarli stando inginocchiati per ore sul pavimento: è un devoto omaggio all’ergonomia del Metodo Montessori, oltre che un modo per conservare i calendari Pirelli al riparo dai guardoni;

passi la baggianata di un manichino rappresentante un partigiano vestito con indumenti militari di varie origini: se durante la Resistenza i pochi resistenti in armi ferraresi fossero andati in giro paludati da guerrieri come han fatto dopo il 25 Aprile non sarebbero mai arrivati vivi al 25 Aprile, ma bisogna comunque rallegrarsi con il museo che ha finalmente spogliato quel manichino dall’uniforme dell’esercito di Tito fattagli indossare per decenni, resistendo alla tentazione di rivestirlo con l’uniforme dell’Armata Rossa o col costume di Toro Seduto.

Poiché i musei sono passatempi per oziosi e, come tutti sanno, la cultura è inutile quando non significa posti di lavoro retribuito, passi anche l’assenza di una miriade di riferimenti culturali insiti nei dettagli degli oggetti esposti. Un solo esempio fra tanti, il calibro delle armi da fuoco portatili: quando a fine 800 si contrae è il segnale d’un balzo tecnologico sia per gli esplosivi che per gli acciai, con conseguenze dirette ed indirette fino ad allora imprevedibili sulla facilità di evoluzione delle guerre locali in guerre totali indotta dalla fiducia negli armamenti, ma a cosa serve oggi conoscere queste futilità e scannarsi di lavoro indicando calibri sulle armi, anni di costruzione e grandezze fisiche significative? Meglio lasciar perdere.

Paolo Giardini

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