Cronaca
29 Dicembre 2013
I risparmiatori truffati dovranno risarcire il ministero

Crac Patrimonium, dopo 20 anni la beffa

di Marco Zavagli | 5 min

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Stefano Melloni

Stefano Melloni

A Ferrara e provincia lo ricordano bene il crac Cofeur Patrimonium di Ferrara. Era il 1993 quando il gruppo di società facenti capo ai fratelli Stefano e Valerio Melloni di Cento sprofondò in un baratro di 120 miliardi di lire di debito che coinvolse 1700 risparmiatori. Secondo quanto ricostruito dalla magistratura – che indagò i fratelli Melloni per truffa e bancarotta fraudolenta -, i clienti venivano convinti a effettuare investimenti a tasso fisso. In realtà la Sim si procacciava in questo modo il contante per speculazioni finanziarie ad alto rischio. I Melloni avevano creato così un vortice dal quale in breve sarebbero stati risucchiati.

Nel 1995 il tribunale di Ferrara pronuncia il fallimento, dichiarando l’assoggettabilità di tutte le società del “gruppo Melloni” alla procedura di liquidazione coatta amministrativa e si converte anche il fallimento della Patrimonium Sim s.p.a. in liquidazione coatta amministrativa. La vigilanza compete al ministero per l’industria, dal momento che nel gruppo c’è la Sim, una società fiduciaria. Il 12 febbraio 1996 veniva nominato come liquidatore Lorenzo Zaccagnini.

Tra i primi con cui il neo liquidatore si deve rapportare ci sono le centinaia di clienti truffati che pretendono indietro i propri soldi investiti. Una ventina di questi è rappresentata dall’avvocato Carlo Emilio Esini. I rapporti non corrono lisci come l’olio. Zaccagnini non sembra troppo collaborativo, tutt’altro. Tanto che la Corte d’Appello di Bologna il 14 gennaio del 2002, con la sentenza n°50/02, condanna la società in liquidazione da lui rappresentata in giudizio a provvedere alla restituzione agli aventi diritto dei titoli loro spettanti, ed al contestuale versamento del loro controvalore in denaro.

Ma per nove anni Zaccagnini, a dispetto delle continue segnalazioni provenienti dai legali dei risparmiatori, utilizza ogni mezzo legale per ritardare la riconsegna, appropriandosi inoltre dei beni dei risparmiatori e da lui custoditi. Esini e altri avvocati – racconta il giornalista Stefano Elli su Plus del Sole 24 Ore – si rivolgono al ministero, senza risposta. In questo arco temporale c’è anche un esposto alla procura, datato 2003 e firmato da alcuni clienti. Il segnale arriva a Roma, da dove si fa vivo per il dicastero dell’industria il direttore generale Mario Spigarelli che in una lettera – riporta sempre Plus – conferma che l’attività del commissario era “pienamente conforme alle direttive ministeriali”.

Il tira e molla si protrae per altri anni, fino a quando dal ministero qualcuno decide di revocare la nomina di Zaccagnini e sostituirlo con Roberto Pincione. Il passaggio di consegne dà i suoi frutti. Il nuovo commissario scopre che qualcuno si era appropriato dei beni custoditi. Dell’ammanco viene riconosciuto responsabile Zaccagnini, condannato nel 2009 dalla quarta sezione del tribunale di Milano a nove anni di reclusione.

Si arriva ai giorni nostri. “È il 14 dicembre 2013 – scrive Stefano Elli – quando l’avvocato Esini riceve una raccomandata. Nella missiva «lo scrivente» dicastero invita l’avvocato e i suoi clienti (i truffati, ndr) a dare corso alla restituzione di 20mila euro a testa”. Somme corrispondenti alla provvisionale, e quindi immediatamente esecutiva (ed esigibile) che “un giudice d’appello in una precedente causa aveva loro assegnato in acconto del risarcimento del danno provocato ai clienti della Sim emiliana dallo stesso ministero e che il dicastero aveva già versato ai truffati”. Intanto però il ministero aveva fatto ricorso. E lo aveva vinto in Cassazione. Per i giudici del terzo grado in sostanza il ministero, pur essendo l’organo di vigilanza della Sim, “non era responsabile – si legge su Plus – di ciò che aveva combinato un suo incaricato”.

Un incaricato, il commissario liquidatore, nominato dallo stesso ministero.

All’interno di questo colossale crac si insinua la storia personale e giudiziaria di Stefano Melloni, assicurato alla giustizia dopo 15 anni di strenue ricerche attorno a mezza Europa. Nel ‘93, evidentemente resosi conto che la terra sotto di lui stava sprofondando, partite ormai le prime denunce, Melloni decide di fuggire e raggiunge la Svizzera insieme al fratello Valerio (che poi tornerà in Italia per costituirsi e collaborare con la giustizia).

Nell’immediatezza della denuncia vennero effettuati accertamenti bancari in tutt’Italia. Venne anche trovata una cassetta di sicurezza, ma quando venne forzata al suo interno non c’era più nulla. Gli inquirenti riuscirono a sequestrare circa 8 miliardi di vecchie lire. Non abbastanza però per risarcire i risparmi di una vita di centinaia e centinaia di persone, prosciugati per assicurare un tenore di vita da tycoon della finanza a quello che consideravano un uomo di fiducia.

Dopo averlo cercato per mezza Europa, i carabinieri di Cento troveranno nel luglio del 2008 Stefano Melloni ad Antequera, un paesino a qualche decina di km da Malaga, in Spagna. Melloni era già finito nel ‘96 in carcere. La polizia spagnola lo aveva rintracciato a Malaga il 14 gennaio di quell’ano e lo aveva arrestato in esecuzione di un mandato di cattura internazionale emesso dal tribunale di Ferrara. Ma il responsabile del colossale crac finanziario, riacquistata la libertà vigilata in attesa di estradizione, era riuscito a far perdere nuovamente le proprie tracce.

Ma l’irreperibilità di questa primula rossa del crimine finanziario è terminata quando il gruppo operativo della polizia di Malaga, su precisa segnalazione tradotta all’istante per telefono dai carabinieri di Cento e fatta pervenire attraverso gli uffici dell’Interpol di Roma, è riuscito a scovare e arrestare il 56enne nella cittadina spagnola, sul posto di lavoro. Melloni è rimasto nel carcere andaluso in attesa dell’estradizione, sulla quale però si era aperto un contenzioso giuridico sulla validità del mandato di arresto europeo.

Intanto in Italia il processo continuava in contumacia e, terminata la fase istruttoria, il primo grado si chiuse nel 2000 con la condanna a 18 anni di reclusione, ridotti poi in appello a 10, nel 2004. Con il secondo grado di giudizio e l’impossibilità di arrivare alla Corte Costituzionale, la condanna era passata in giudicato, diventando definitiva, salvo lo sconto di altri 3 anni per effetto dell’indulto del 2006.

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