Attualità
8 Dicembre 2013

La traviata del nostro scontento

di Redazione | 4 min

Ho assistito in tv alla Traviata messa in scena dalla Scala a Milano. Uno spettacolo indicativo dei nostri tempi: brutto esteticamente ma perfettamente in linea con ciò che interpretiamo come una vicenda che, pur avendo un’età rispettabile, riesce a coinvolgerci non per effetto di traslazione dei tempi (un ormai noioso escamotage a cui ricorrono sempre più spesso i registi e ancor di più l’immaturo Dmitri Tcherniakov) quanto per i riferimenti all’attualità che di per sé producono una specie di straniamento non sufficientemente autorizzato dalla sublimità della musica. Verdi aveva dato come in dicazione “all’epoca nostra” e il regista ha tentato di salvare l’atmosfera ottocentesca dell’opera trasportandola in un Novecento trash dove tutto si pone in funzione di una mediocrità di gusto che nemmeno l’olgettina più ignorante potrebbe condividere.

Tra un salotto-sala da pranzo-cucina ingombro di pacchi di spesa, di stoviglie a vista, furiosamente o dolcemente Violetta e Alfredo impastano la pizza, si muovono convulsamente ( ah! nel II atto  la piroetta in aria di Alfonso che sbatte i tacchi!!!) lei in una specie di abito vestaglia di un atroce giallino marroncino (la sublime Natalia Aspesi nota come avrebbe potuto essere un di quei vestitucci in uso presso le inquietanti suore di qualche film tipo Magdalene) e lui in gilet che neanche i coatti in vena di eleganza approverebbero.

Una simile sciatteria come pegno d’amore in un nido che verrebbe voglia di sgomberare al più presto per portare ordine e pulizia. Perfino delle bambolone in bella vista,  innocente ricordo d’infanzia di Violetta quando non era ancora la Traviata. Poi la grandiosa trovata merito del/della costumista: il vestito di papà Germont. Tutto ton sur ton grigio e, fantastico tocco di classificazione sociale, la pashmina legata al collo come solo la può ancora portare Brunetta.

Le classi superiori si vestono eleganti come ci ha insegnato il signore di Arcore mescolando doppi petti Caraceni con maglioncino giro collo blu o le atroci cravatte dei parlamentari specie di quelli di sinistra, anche quando sono di Marinella o di Hermès, portati su funerei abiti a righe o rigorosamente “fresco di lana”. Il post-moderno dunque  che prende alla lettera l’indicazione verdiana “all’epoca nostra” e propone una vicenda di due mezze cartucce che si mantengono come possono e vengono rigorosamente redarguiti da severi padri che non si sa come abbiano fatto la loro fortuna e invocano e sollecitano la povera traviata a pentirsi e come consolazione la invitano a piangere (il sublime momento del “piangi, piangi”) che per forza ti induce a chiudere gli occhi per ascoltare il vero momento assoluto di quella musica divina, allora ti rendi conto che qualcosa non va.

Che qualcosa non vada nell’interpretazione sociale indotta da una cultura politica che ti ha fatto riconoscere valori che non lo sono, che ti abituano a trovare la volgarità travestita da raffinatezza. Mi ricordo la stupenda Carmen con la regia di Arbasino a Bologna o le regie di Bayreuth o quelle di Edmund Wilson che adattavano alla contemporaneità vicende ormai storiche, ma che differenza tra quelle interpretazioni nate da una critica del gusto e invece una piena adesione che questa regia induce  a un ambiente che è diventato “normale” e che sancisce la fine di ogni rapporto culturale con il passato anche quando esso è rappresentato dalla forza michelangiolesca della musica verdiana. E al momento della morte tra pillole liquori  della grandissima soprano ritorna in mente l’eleganza del gusto della  demi-mondaine tratteggiata dalla divina Callas che si prova un cappellino e non fa la sciatta.

La bellezza della voce del  soprano Diana Damrau nulla può contro quell’infelice messa in scena. La suprema aria del terzo atto “Addio, del passato” cantata sotto un piumone è forse il momento di maggior forza registica. Violetta come tutti noi nel momento di disperazione si corica e si copre il capo per non più vedere nel momento della resa. Ma questo è quello che simbolicamente cogliamo nell’inverno del nostro scontento.

Credo però che sia sintomatico (e ancora una volta metafora di un mondo convulso) che chissà, forse domani dopo primarie PD si potrebbe finalmente cambiare;  che questa sciattezza (ricordate le parole del rapporto Censis?) di cui è ormai è intrisa la nostra quotidianità faccia spazio ai valori anche della tradizione e che Alfredo non debba piroettare tra le spese del super mercato per trovare posto all’amore. Ricordate tutti la pubblicità di un super mercato dove si vedono due a letto e lui sveglia lei dicendole “abbiamo un problema” e lei novella Violetta risponde “tra noi due? Illusa! Il problema è mettere a posto la mercanzia nel negozio. NON vogliamo che l’amore come ci suggerisce questa Traviata venga confuso con la mercanzia. Se no si ricomincia con le cene eleganti.

P.S Come per gli altri miei interventi ribadisco che NON risponderò in alcun modo ai commenti sia positivi che negativi. Il mio compito si esaurisce con la proposta di un tema e il mio punto di vista.

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