Eventi e cultura
10 Novembre 2013
Miegge spiega Paul Ricoeur: la vita come narrazione

L’identità nell’altro da sé

di Redazione | 3 min

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CIMG3639 (450x600)di Federica Pezzoli

Non era facile, ma Mario Miegge e il suo allievo Antonio Moschi sono riusciti a presentare al pubblico della sala Agnelli le linee principali della ricerca filosofica di Paul Ricoeur, una delle figure fondamentali della filosofia del Novecento. L’occasione è stata un incontro organizzato dall’Istituto Gramsci e dall’Istituto di storia contemporanea per celebrare il centenario della sua nascita. Ricoeur è nato, infatti, nel 1913 ed è morto nel 2005, a 92 anni: testimone di tutto il XX secolo, è stato un “autore molto longevo e molto produttivo”, ha affermato Moschi introducendone una brevissima biografia attraverso la quale si ripercorrono le tappe più salienti del Secolo breve in Francia. Ricoeur perde quasi subito la madre, mentre il padre muore nel 1915 sul fronte della Grande Guerra, si laurea in filosofia nel 1934 e si impegna politicamente nell’esperienza del Fronte Popolare di Léon Blum. Nel 1940 viene fatto prigioniero dai tedeschi e passa i successivi cinque anni in un campo di prigionia per ufficiali in Pomerania: è proprio qui, “leggendo tutti i volumi che riesce ad avere a disposizione”, ha continuato Moschi, che si interessa al pensiero di Jaspers e Husserl. Nel 1968 poi vivrà il Maggio francese da decano della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Nanterre, che ha appena fondato, combattuto fra la condivisione di alcuni principi dei suoi studenti e “il senso hegeliano dell’istituzione”, ha scherzato Moschi citando Ricoeur stesso.

Punto centrale della sua opera, come ha spiegato Miegge, “è la formazione del sé, che però è sempre variabile e instabile, attraverso l’operazione ermeneutica”, cioè attraverso il continuo e faticoso tentativo di “comprendere e interpretare il mondo in cui viviamo”. Da qui l’estrema complessità del suo pensiero e la grande difficoltà di ridurlo ad uno schema interpretativo univoco: la filosofia per Ricoeur non è più alla ricerca del fondamento del mondo, come nella filosofia antica, o del soggetto, come nella filosofia moderna, ma appunto ermeneutica, cioè interpretazione. Il filosofo è perciò un “interprete fra mondi e linguaggi altri da sé” e la conoscenza è “relazione” con il mondo attraverso “le opere della cultura”, cioè le varie stratificazioni culturali con cui nel tempo l’uomo ha tentato di dare un senso al proprio mondo. Da qui la grande varietà di fonti da lui studiate, dalle opere teologiche ai “tre maestri del sospetto” come lui stesso li ha definiti: Nietzsche, Marx e Freud a cui dedicherà un intero volume, Dell’interpretazione. Saggio su Freud (1965). Da qui anche l’importanza del tempo, come dimensione fondamentale dell’interazione con il déhors, il fuori, e nella quale avviene il cammino di formazione del sé: “un cammino difficile di demolizione delle illusioni del nostro mondo”. In altre parole in Ricoeur il pensiero filosofico è un dialogo continuo perché, ha concluso Miegge, “l’identità non è definibile in modo autosufficiente, ma misurandosi con l’alterità”. Proprio in questa “identità relazionale”, come l’ha chiamata il professore ferrarese, sta l’attualità dell’ermeneutica di Ricoeur in quest’epoca di crisi delle istituzioni: suo fondamento è infatti un patto sociale che si richiama al patto biblico fra Dio e Israele, piuttosto che a quello del contrattualismo di Locke, e che dà vita a quelle che Ricoeur definisce con straordinaria capacità di sintesi “istituzioni giuste”, che possano essere capaci di fornire un contesto alla relazione fra i componenti della società.

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