Poggio Renatico
1 Agosto 2013
Le motivazioni della sentenza che ha condannato i due carabinieri per tentata concussione

Caso Niagara, i Noe crearono “clima di terrore”

di Marco Zavagli | 3 min

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adminPoggio Renatico. Avevano gonfiato l’indagine ad arte. Avevano terrorizzato titolare e dipendenti paventano sequestro dell’azienda e manette per loro. Tutto per avere soldi, tanti soldi, “in totale spregio, quantomeno per quanto riguarda i militari, dei doveri istituzionali connessi al ruolo”. Lo scrive il tribunale collegiale di Bologna nelle motivazioni della sentenza con cui lo scorso 29 gennaio ha condannato Sergio Amatiello e Vito Tufariello, marescialli del Noe di Bologna, e l’imprenditore Marco Varsallona, legato ai due ufficiali da rapporti extraprofessionali (stavano costituendo insieme una società di consulenza in materia ambientale) per tentata concussione ai danni della ditta Niagara.

Amatiello e Tufariello avevano indotto il titolare dell’azienda, attiva nello smaltimento rifiuti, Mauro Carretta, a promettere loro una somma di denaro tra i 20mila e i 40mila euro per “ammorbidire” le conclusioni della informativa da depositare in procura. Questo dopo le ispezioni avvenute nel febbraio del 2008. Varsallona aveva avanzato alla dipendente Fabiana Cosmar e allo stesso Carretta la necessità di pagare i militari del Noe per evitare quantomeno il sequestro dell’azienda e misure cautelari personali nei confrotni dello stesso titolare e dei dipendenti.

Il cardine attorno al quale ruota la tesi accusatoria, sposata poi dal giudice, è che l’indagine nei confronti della Niagara fosse stata “gonfiata ad arte” dai due carabinieri, “ben consapevoli della inconsistenza delle accuse sollevate (tanto che il fascicolo venne poi archiviato), allo scopo di ingenerare nelle persone offese  un effettivo timore di poter essere arrestati o di vedere l’impianto sequestrato”, timore che alimentavano continuamente consigliando loro di “tenersi liberi per Natale”, accennando al fatto che se fossero stati  altrove, “con procure più duttili alle loro richieste, sarebbero stati probabilmente già tutti in carcere”. Per essere ancora più convincenti i due Noe si vantavano ripetutamente di aver ““sbattuto in galera” questo o quell’altro imprenditore”.

In questo “clima di terrore creato ad arte”, per utilizzare le parole dei giudici, la richiesta economica di Varsallona, anch’egli imprenditore del settore, passa attraverso il meccanismo della costituenda società di consulenza. Il sistema consisteva nel “formulare un’accusa infondata, ma all’apparenza giustificabile con una mancanza di perfetta conoscenza della specifica questione, che sarebbe stata chiarita e ridimensionata in sede di richiesta di misure cautelari”. L’escamotage era quello di “dover poi corroborare i dati della relazione con una difesa più elaborata, e qui sarebbe entrata in gioco al società che i tre imputati si apprestavano proprio in quei giorni a costituire, giustificando il passaggio di denaro”.

Ricostruzione che spiega anche la reazione infuriata di Amatiello alla notizia che il dipendente Davide Gherardi invece di “cospargersi il capo di cenere” (espressione captata più volte dalle intercettazioni telefoniche), “stesse muovendo mari e monti per approntare egli stesso la difesa tecnica dell’azienda”.

Il giudizio finale del tribunale sulla condotta dei due uomini dell’Arma, come detto, è tranciante: “si evidenzia come i motivi a delinquere siano strettamente legati alla ricerca di lucro, in totale spregio, quantomeno per quanto riguarda i militari, dei doveri istituzionali connessi al ruolo”.

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