Un concerto dal sapore unico. Come unica era la data italiana del live tour che The Black Angels hanno scelto di portare a Ferrara, ieri sera, nell’ambito della rassegna “Ferrara Sotto le Stelle”. Nel cortile del Castello, cornice ideale per gustare appieno le atmosfere magnetiche e a tratti ipnotiche della band texana, Alex Maas e compagni hanno dato vita a un concerto per palati fini e sopraffini, ma capace di risvegliare emozioni anche in chi non ha particolare dimestichezza con certe tendenze della musica d’oltreoceano.
Musica che, per esigenze di classificazione, viene circoscritta all’interno di un genere codificato dalla storia, quello della psichedelia, con l’aggiunta del prefisso “neo”. Difficile però poter rintracciare nei brani dei Black Angel l’adesione puramente formale e reinterpretativa di quanto già scritto in passato, perché in realtà ciò che la band di Austin ha saputo costruire nel tempo è qualcosa di assolutamente personale e originale, per molti versi anche innovativa nel senso più squisito del termine, o, se vogliamo, indipendente da qualsivoglia etichettatura. E’ chiaro altresì che Alex Maas e la sua band si muovono all’interno di un ventaglio di influenze (dai 13th Floor Elevator ai Velvet Underground fino ai Doors) che rappresentano indubbiamente la radice di partenza, ma ciò che ne scaturisce è uno sviluppo basato su sonorità assolutamente calate nella contemporaneità e nella modernità.
Senza contare che i Black Angels hanno sperimentato e rinnovato il proprio stile compositivo nel corso degli anni, producendo pochi, ma significativi album. Ed è proprio un percorso ideale nella propria produzione discografica quello che hanno proposto a Ferrara e all’Italia davanti a qualche centinaio di entusiasti spettatori. La band ha infatti aperto il concerto con la lenta e magnetica “Viking”, appartenente all’album “Directions To See A Ghost” del 2008, per poi proseguire con “I Hear Colors”, traccia dall’atmosfera post-punk tratta dall’ultimo lavoro intitolato “Indigo Meadow”, uscito proprio quest’anno.e ben accolto dalla critica e dai fan. Avanti e indietro nel proprio repertorio, dunque, con preponderanza di brani dal recentissimo album e da quel “Phonosphene Dream” che nel 2010 ha confermato l’indole psichedelica del gruppo intrecciata con le visioni del dark sound. Si pensi all’aggressiva quanto ipnotica “Entrance Song”, sensuale e rabbiosa come una danza tribale, o alla più mite “Telephone” dal sapore ‘garage’. Un sapore, quest’ultimo, che si ritrova nella più recente “Broken Soldier”, così come nella più acida e noise “Don’t Play With Guns”.
Un paio d’ore di musica che costringe all’ascolto concentrato senza risultare faticoso, grazie anche all’estrema varietà di suoni, ritmi e suggestioni dei pezzi proposti in rapida successione, da quelli più magnetici e dilatati, angosciosi e stranianti, alle cavalcate roboanti che hanno per contrasto l’effetto di scuotere il pubblico dall’ipnotico effetto dei precedenti brani. Ipnosi innocua, sebbene incisiva, il cui unico e probabile effetto dev’essere stato quello di aggiungere estimatori a una band che, pur essendo considerata di nicchia, come spesso accade ha valori artistici ben più ampi di quanto i soli numeri possano far pensare.