Politica
16 Maggio 2013
Dal filosofo lezioni di nuovo capitale a Ferrara ma anche frasi choc

Toni Negri torna ‘sovversivo’

di Marco Zavagli | 6 min

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toni“E’ uguale a 40 anni fa” sorride chi lo ricorda ai tempi delle grandi poteste degli anni Settanta. Toni Negri non ha perso lo smalto degli anni ’70, di quando rincorreva quel “sogno e pratica di una assalto al cielo” e non rinnega la sua figura di intellettuale dissacrante. Fiero del suo pensiero, che già in sede di condanna per attività sovversiva gli fece dire “noi non siamo terroristi, come i nostri padri non furono disertori e i nostri nonni briganti”, il fondatore di Potere Operaio si presenta a Ferrara per inaugurare una serie di incontri su “Crisi globale e costituzione del Comune” organizzato dai collettivi UniNomade e Sancho Panza.

Occhi vispi e penetranti sotto gli stessi identici occhiali di 40 anni fa, maglione blu e giacca grigia, il professore di dottrina dello Stato si siede sulla cattedra open air del centro sociale La Resistenza.

Blocco di appunti sul tavolo e orologio per scandire i tempi e via con una prolusione di oltre due ore per spiegare perché oggi la crisi che viviamo “non è certo un vento eccezionale e inaspettato”.

Quella davanti ai nostri occhi è “la crisi del capitale”, cioè di quel “rapporto tra chi comanda e chi obbedisce, tra chi sfrutta e chi lavora, tra chi ha il potere e chi resiste”. Ne consegue la “redistribuzione del contenuto del risultato del lavoro” che trova impreparati solo chi subisce quel rapporto. A spiazzare le ‘masse’ sono essenzialmente due fattori. Da un lato la fine del secolo breve, quello che Hobsbawm faceva decorrere dal 1917 al 1989, dalla Rivoluzione di Ottobre alla fine del socialismo reale; dall’altro la fine del concetto di classe operaia, spezzettata nel mondo del precariato e dell’informatizzazione dell’era tecnologica.

Allo stesso tempo “viene meno la capacità delle forme nazionali entro le quali il capitalismo si era organizzato”. La produzione inizia a svolgersi su di un terreno globale dal momento costruendo “un mercato mondiale al quale non corrispondeva una forma politica, ed è difficile stabilire un mercato senza leggi che lo regolino”.

In questo paese globale, “reso univoco ormai dalla caduta del blocco sovietico”, si nota il “tentativo americano, imperiale, di regolare questo processo”. E questo attraverso “la regola economica imposta da Wall Street non più a un economia di flussi imperialistici, ma a una comunità dei padroni a livello mondiale”. Ma questo modello “non tiene; ecco uno dei grandi elementi della crisi: il mondo e tornato a essere caotico. Ma ora su nuove dimensioni”. Accanto a questo aspetto c’è un altro elemento centrale, la nuova forma di lavorare. “I processi di valorizzazione del lavoro oggi sono di carattere cognitivo. Significa che abbiamo di fronte un lavoro mobile, che non ha più bisogno di essere chiuso in una fabbrica. Ognuno di noi ha un computer e attraverso esso si mette in relazione”.

Senza più relazioni dirette e senza un centro fisico di aggregazione, “la vecchia classe operaia diventa moltitudine, moltitudine di singolarità”. Accanto alla moltitudine sta la realtà circostante, “il comune”, i beni comuni che servono per vivere, l’aria, l’acqua, la terra. Come reagisce il nuovo capitale? “Con un nuovo tentativo di accumulazione originaria”. È la finanza, che “rappresenta quel rapporto che un tempo legava capitalista e lavoratori” e che oggi “contrappone “quella parte di mondo che si oppone alla moltitudine di classi lavoratrici alla moltitudine stessa”. Altra differenza con il passato sta nel campo della lotta, che dalla classe sociale si sposta a livello mondiale, dal momento che coinvolte sono tutte le moltitudini, dagli indiňados di Spagna ai protagonisti della Primavera araba fino ai movimenti italiani per l’acqua pubblica.

“Il comune è questo processo”, continua Negri. E per appropriarsi di questo comune e creare accumulazione, “il capitale si fa estrattivo. Toglie, strappa dalle nostre mani i beni naturali”. Come difendersi? “Solo attraverso la rivoluzione sociale. Se vogliamo un new deal proponibile e costruire nuovi diritti di proprietà sociale dei beni comuni, dobbiamo riappropriarci di questo comune nel quale viviamo. Questa conquista è l’unica via giusta per uscire dalla crisi”.

Un processo, quello immaginato da Negri, che non prevede la forma partito. Anche perché “è venuto meno il concetto di rappresentanza. Il lavoro della moltitudine è tale oggi da non poter piè essere rappresentata”. Una base così frammentata, per usare altri termini, non si rispecchia più in un simbolo. E tantomeno in chi porta in parlamento quel simbolo. “Il dibattito odierno contro la casta mi sembra lunare – prosegue il filosofo -, serve solo per costruire nuove caste, non serve alla gente”. Quello che serve è “una forma di rappresentanza che corrisponda alla nostra nuova forma di vita di lavoro. Si potrebbero forse immaginare forme più o meno diluite, dinamiche, di rappresentanza diretta che però sono astratte perché dimenticano anch’esse il presupposto della lotta politica. Solo la lotta politica determina nuove forma di rappresentanza”.

Non poteva mancare a questo punto la domanda sul partito che storicamente riassumeva le istanze delle classi lavoratrici, il Pci. Dal quale però Negri uscì nel ’62. “Io lo apprezzavo il partito. Era lui che non si è fatto più apprezzare. Non ha recuperato i rapporti con i movimenti, ha preferito lasciare a Grillo la protesta piuttosto che interpretarla. Ho amici che negli anni Sessanta hanno fatto con me lotte importanti e che ora sono deputati o senatori. Erano partiti molto bene e ora riconoscono a Berlusconi la dignità di uomo di stato. A questo punto diventa imbarazzante parlare di partito”. Tornando al recupero di una rappresentanza politica, “oggi credo ci siano forme diverse da quelle fortemente identitarie e gerarchiche del socialismo. L’esperienza del Pci è stata importante, sarebbe stato bello riprenderla e trasformarla, perché ad esempio l’Emilia rossa è stata un eccezionale fenomeno di cooperazione, di istruzione, di crescita sociale, un patrimonio buttato via dai dirigenti del partito”. E qui Negri si lascia scappare una frase volutamente provocatoria che è facile immaginare non gli verrà perdonata. “I compagni delle Brigate Rosse, anche se io non ho mai difeso né giustificato le Brigate Rosse, che gli sparavano nelle gambe non facevano male, perché questi hanno distrutto tutto quel patrimonio. Io queste cose non gliele perdono, mi dispiace, non gliele perdono”.

Dopo la frase da censura Negri prosegue ricordando che “il Pci era il partito degli operai con le mani callose. Noi oggi abbiamo un cervello che funziona e dobbiamo cercare di non farlo diventare calloso”. Quanto ai possibili eredi di quel Pci, Negri glissa sulla parola “partito” e preferisce parlare di “un nuovo colore”, possibile solo “se ci si pone il problema di una nuova sinistra. Viviamo in una società perversa, in cui probabilmente qualche fremito insurrezionale non andrebbe poi male. C’è la necessita di lavorare insieme – chiude ricordando , e solo insieme che si riesce ad essere uomini”. Hegel in fondo diceva che possiamo essere liberi solo se tutti lo sono.

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