Un tempo, quando ancora la confusione poteva essere domata dal severo controllo dell’intelligenza, si presupponeva che chi amministrava il bene pubblico dovesse essere coadiuvato da chi fosse depositario di quel bene prezioso che di solito viene chiamata cultura. Nei suoi vari aspetti e nelle sue forme più articolate. Non c’è, infatti, una sola cultura, ma quella che si adatta ai vari rami del sapere. Tra la cultura legata alla scienza e quella che correntemente si chiama umanistica non ci dovrebbe essere priorità ma rispetto e collaborazione. Non fosse che a un certo momento le cose si sono complicate, anzi sono arrivate a un punto di non ritorno. Lo ribadisce un libro che molti amministratori e politici dovrebbero leggere, di Gianfranco Marrone, illustre semiologo, Stupidità. Nella recensione apparsa sulla “Stampa” del 2 gennaio 2013 Massimiliano Panarari commenta: “ Il fatto è che […] si è scavato un solco incolmabile nella nostra età postmoderna, tra “politica” e cultura, che ha messo in mora il senso della misura e radicalizzato le distanze tra i due ambiti” . La radicale -ma non troppo- affermazione è constatata non tanto nella destra berlusconiana assolutamente indifferente al rapporto cultura-politica quanto nella sinistra così attenta a un rapporto che nella sua lunga storia era stato motivo di orgoglio politico e, di conseguenza, culturale. Ma le cose si sono complicate per due ragioni: la visibilità che la conduzione della cultura offre agli amministratori; l’acquiescenza di molti operatori culturali alle esigenze politiche. Non è un caso che tre avvenimenti emblematici si siano svolti nelle regioni più rigorosamente ligie a quella tradizione che è stata uno dei capisaldi della politica della sinistra: l’Emilia e la Toscana. Una riguarda Daniele Abbado, il figlio del grande direttore d’orchestra. Costretto a rinunciare alla direzione dei tre teatri di Reggio Emilia per incompatibilità tra le sue scelte e quelle degli amministratori. La seconda nella Firenze di Matteo Renzi il quale, senza consultare i sindacati né accordarsi con la direttrice, spedisce dieci lettere di licenziamento ad altrettanti operatori del Maggio Musicale fiorentino. La terza riguarda personalmente chi scrive e l’istituto di Studi rinascimentali. Da più di un anno, ben prima quindi delle dismissioni della Provincia come socia dell’ISR era in atto un tentativo di allontanarmi dall’istituto stesso perché come risulta dalla corrispondenza intercorsa tra me e l’assessore alla cultura i miei progetti-sempre presi in accordo con il comitato scientifico- non collimavano con la “politica” delle istituzioni a causa delle mie scelte culturali e quindi una volta proposte dovendomi dire di no il “comune ci faceva brutta figura” [testuale]. Appaiono curiosi o perlomeno nuovi nella politica della sinistra questi tentativi di egemonizzare non tanto la cultura ma le sue ricadute, quasi sempre legate a resa economica o incentivante il turismo. Quasi che essa dovesse in qualche modo essere “ancilla domini”. Una situazione che Salvatore Settis ha illustrato da par suo nei suoi volumi e nei suoi interventi. Sommessamente vorrei aggiungere che questo modo di procedere poco ha a che fare con le ristrettezze economiche quanto con l’ansia politica di potere controllare la cultura. E gli esempi del libro di Marrone ne sono prova incontrovertibile. Ora aspettiamo alla prova il nuovo ISR dove finalmente l’ombra di Banquo del Venturi è stata sconfitta. Collaborerò sempre e fedelmente affinché la grande istituzione non muoia di consunzione non perché mi senta insostituibile come pensavano forse erroneamente l’assessore alla cultura del Comune di Ferrara e le signore del Castello e alcuni dei membri dell’ex comitato scientifico ma perché come ha insegnato la più grande di tutte, Rita Levi Montalcini, l’offesa è semmai alla persona non all’intelligenza che ne esce immune e che deve sempre per suo principio e assioma servire la scienza e nello stesso tempo sentirsi libera.
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