Tanto, tanto tempo fa, in una città della Padania citeriore, c’era una grande impresa di attività e di persone, una vera e propria “conglomerata”, che si occupava di tutto, dalle acque pubbliche, alla sanità, ai rifiuti, agli spettacoli. Negli anni gloriosi, i soci ricollegavano addirittura ai duchi estensi, tanto da chiamarlo Duca, l’amministratore delegato del tempo, tale Bolliti, cui successe un certo Saturnale.
Era una epoca di “paillettes, son et lumières”, e addirittura venivano officiati, a cachets salatissimi, maestri apicali della musica e del Teatro, per impiantare, ad imitazione del Metropolitan, operone teatrali, e lastricare l’acciottolato antico di grandi specchi, ove la dirigenza della società si rispecchiava compiaciuta, finche il tutto non veniva smontato dati i costi infuocati. Per coprire queste spese la società aveva concepito, grazie alla menti finanziarie locali e in particolare tale Volpastri, un sistema di “prodotti strutturati”, alias “derivati”, con i quali si riusciva, grazie alla finanza spericolata autorizzata da provvedimenti di tale Ministro Tremari, a spendere soldi che non erano definitivamente in cassa, e il fiume di denaro sembrava inarrestabile e fluiva nelle casse della società, e di lì in parte in quelle dei vari maestri di cui sopra a coprire i loro compensi.
All’epoca si pensò pure di abbandonare un ospedale sito in centro città per erigerne un altro in zona paludosa, dove neanche i nazisti vollero costruire un aeroporto, e a sfidare le ducesche bonifiche laziali. Le quali vennero completate in 5 o 6 anni, mentre il sanitario parallelepipedo ebbe inizio di vita solo vent’anni dopo, come il romanzo sui Tre Moschettieri.
Passò il tempo e venne incaricato della gestione finanziaria della società tale Matachin, un giovane studioso di economia e pieno di ambizione e capacità, il quale, strappato agli studi, venne catapultato nel bailamme di questo caos economico-finanziario, a duellare con il derivato, lo Stato Italiano, e i tanti draghi che come l’idra di Lernia spuntavano qua e là.
E dai e ridai, alla fine riuscì nella sua impresa di evitare che il derivato portasse la società alla deriva del default, e taglia qui e taglia lì, rimise in carreggiata le finanze sociali. Non senza qualche scivolata d’ala, anzi scivolata sul cappello del prete, dato che il giovane conosceva e frequentava le moderne tecniche di comunicazione, tipo twitter e facebook, e un dì… si era in un periodo di acuto confronto fra liste (in quella società valeva infatti il voto di lista), e i competitors (in quei tempi non si usava più il termine “compagni”, démodé) ebbero vita facile a sfruttare quella scivolata fintanto che la contesa era calda; poi, cessato il contesto, anche il cappello del prete fece la fine che meritava, cioè finì in un bel bollito di Capodanno.
Però il giovane Matachin, il cui bilancio finanziario per la società era apprezzato anche da testate nazionali meno grezze di alcune critiche locali, e contro cui fu dato voto contrario in consiglio di amministrazione solo da una sua antica fiamma, per amore (di contrasto), era sempre roso dal pensiero che se fosse stato financial officer di una società non cooperativa come quella in cui si trovava, i brillanti risultati di gestione sarebbero stati apprezzati con tanti bei soldoni, stock option esentasse alla Cameron, e quant’altro
Ma poi prevalse la nebbia padana e l’umido attaccamento alla vecchia conglomerata, e soprattutto il senso di colleganza al suo Presidente Incolloni, anche lui spesso tentato dal ritorno alla professionale toga pretexta. E quindi con lui anche il giovane Matachin sospirò alla Amatore Sciesa, “tiremm innanz!”. E così, fin che Dio volle, nella estense città tutti vissero felici e, si spera, CONAtenti.
Gianluca La Villa