L'inverno del nostro scontento
15 Luglio 2021

L’identità di genere esiste già nelle leggi italiane

di Girolamo De Michele | 3 min

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Due parole sulla “identità di genere”, oggetto di trattative più o meno sottobanco, pietra dello scandalo per alcuni, grimaldello finalizzato all’introduzione nelle scuole di una fantallucinatoria disciplina denominata “teoria gender”. Quella “identità di genere” che, secondo alcuni, se venisse espunta dall’art. 7 del DDL Zan renderebbe accettabile il testo già approvato alla Camera.

SPOILER: L’identità di genere è già riconosciuta e normata dalla legge italiana.
A partire dalle scuole, guarda un po’. Lo Statuto della studentesse e degli studenti, che è una legge dello Stato (DPR 249/1998, governo Prodi, ministro Berlinguer; modificato DPR 235/2007, governo Berlusconi, ministra Gelmini) all’art. 3 recita:

La comunità scolastica, interagendo con la più ampia comunità civile e sociale di cui è parte, fonda il suo progetto e la sua azione educativa sulla qualità delle relazioni insegnante studente, contribuisce allo sviluppo della personalità dei giovani, anche attraverso l’educazione alla consapevolezza e alla valorizzazione della identità di genere, del loro senso di responsabilità e della loro autonomia individuale e persegue il raggiungimento di obiettivi culturali e professionali adeguati all’evoluzione delle conoscenze e all’inserimento nella vita attiva.

Non solo: perché, al di sopra delle norme, c’è la giurisprudenza costituzionale. E la Corte Costituzionale, sentenza n. 221 del 5 novembre 2015, ha chiaramente affermato il “diritto all’identità di genere, come espressione del diritto all’identità personale (art. 2 Cost. e art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali)”, così come l’eventuale ricorso alla modifica chirurgica del sesso biologico come “strumento per la piena realizzazione del diritto, dotato anch’esso di copertura costituzionale, alla salute”, dal momento che rientra nell’esercizio del diritto costituzionale alla salute

“consentire alla persona di raggiungere uno stabile equilibrio psicofisico, in particolare in quei casi nei quali la divergenza tra il sesso anatomico e la psicosessualità sia tale da determinare un atteggiamento conflittuale e di rifiuto della propria morfologia anatomica”.

Due anni dopo la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 180/2017 (nella quale si chiarisce che per ottenere la rettificazione del sesso non è obbligatorio l’intervento chirurgico demolitorio o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari) rileva nuovamente che

“l’aspirazione del singolo alla corrispondenza del sesso attribuitogli nei registri anagrafici, al momento della nascita, con quello soggettivamente percepito e vissuto costituisca senz’altro espressione del diritto al riconoscimento dell’identità di genere“.

Si potrebbe anche ricordare che la legge 107/2015, cosiddetta “Buona scuola”, all’art. 1 comma 16, assegna alla scuola, attraverso il Piano Triennale dell’Offerta Formativa, il compito di assicurare “l’attuazione dei principi di pari opportunità promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l’educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni”: e fra queste discriminazioni non possono non esserci quelle che violano il diritto all’identità di genere, la cui natura fondamentale è sancita dalla Corte Costituzionale. Lo ricordo, perché quella legge l’ha scritta Renzi.

Questi sono i fatti. Il resto è fuffa.

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