Pensieri stringati
28 Giugno 2020

Numero 31

di Paolo Simonato | 5 min

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25Aprile. “La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare”

“La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni, e che auguro a voi di non sentire mai”. 

È con le parole di Piero Calamandrei – tra i padri fondatori della Costituzione – che il sindaco Alan Fabbri apre il suo intervento durante la celebrazione del 25 aprile, dopo l’alzabandiera e il picchetto d’onore. 

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Arriva un’altra tegola per l’immagine perduta di Ferrara come città d’arte e di cultura. Rovigo l'ha superata in numeri per quanto riguarda uno dei fiori all’occhiello che fino a poco tempo fa la rendeva famosa e attrattiva in tutta Europa

Esco di casa.

Un’ombra che si muove sull’asfalto alla mia sinistra mi porta istintivamente girare la testa, e vedo il tricolore che ho piazzato sul balcone che garrisce orgogliosamente nella brezza vespertina.

Insomma, penso mentre comincio a correre, “garrisce orgogliosamente” è davvero troppo; forse “sbatacchia stancamente” potrebbe essere una descrizione più realistica.

In questa afosissima serata di fine giugno, poi, la brezza non si fa sentire per niente.

Della faccenda della bandiera, se esporla o no, di questi tempi, ne avevo parlato con Luca, dopo averlo abbracciato senza smettere di correre (un’arte che si mette a punto solo dopo anni di esperienza), prima che lui rientrasse a Milano.

Perché in effetti è una questione che a mio parere merita qualche riflessione, e che ho dovuto elaborare al mio interno prima di risolvermi a esibire il vessillo.

Io credo (penso annaspando sul sentierino polveroso che mi porta alla Prospettiva) nasca tutto dai tempi delle scuole superiori: Ferrara, liceo Ariosto, primi ’80, prime curiosità politiche, gli scioperi, le “fughe vigliacche davanti al cancello” (come cantava Venditti), l’occupazione…

Si cercava allora un po’ di capire il mondo, con gli strumenti e la capacità di analisi di cui si disponeva, e un po’ di collocarsi al suo interno, di costruirsi una identità, identità che era personale, sociale e anche politica.

I tempi dell’università (penso mentre osservo dall’alto i desolati istituti del Mammuth) giunti subito dopo erano molto meno impegnati: si doveva badare a studiare e a fare esami, più in fretta possibile, altro che le lotte per gli operai, l’aborto, la destra e la sinistra…

Ma al liceo, sede del mio imprimatur politico, la coda lunga del ’68 si faceva ancora sentire; era una coda da un lato ormai stanca e dall’altro avvolta in un’aura di mito che la rendeva affascinante.

E questa coda lunga prevedeva un antifascismo netto, severo e senza compromessi, che comprendeva uno sdegnoso rifiuto di tutta la retorica annessa.

Era una comprensibile reazione di rigetto che inglobava anche il lessico e la simbologia utilizzata dal regime, la grossolana, stucchevole retorica di cui si gonfiava la dittatura, come spesso fanno le dittature, per mascherare la sua povertà e la sua violenza di fondo.

Il nucleo di questa retorica era la parola “patria”: Dio, patria e famiglia, oro alla patria, il patrio suolo… e la bandiera ne era la rappresentazione.

Così sfigurata da queste manipolazioni tutto sommato storicamente recenti, la parola “patria”, era pressoché inservibile, troppo ostica da maneggiare nel contesto culturale in cui io mi muovevo allora.

La stessa bandiera la si poteva tollerare forse solo se la nazionale vinceva i mondiali, allora si poteva perfino gridare (perfettamente in pace con la propria coscienza di persona di sinistra) “forza Italia”, prima che qualcun altro tornasse a guastare il piacere di pronunciare quelle parole strumentalizzandole a fini politici (e personali).

Nel frattempo continuo a correre con uno sforzo molto superiore al solito; il tunnel formato dagli alberi nel tratto tra Corso Porta Mare e Via Ercole Primo d’Este trattiene una cappa di umidità che mi fa boccheggiare.

Nonostante la carenza di ossigeno ricordo bene quali furono, per me, le leve che portarono ad un ripensamento di quelle posizioni; non furono tanto saggi storici, studi, approfondimenti. Furono principalmente due canzoni.

La prima fu “Viva l’Italia” di De Gregori. Era un brano particolare, coraggioso. Il passo musicale era lento, solenne, ma il testo era aspro, diretto, non retorico, disincantato e allo stesso tempo tenero: “viva l’Italia, l’Italia del 12 dicembre, l’Italia con le bandiere e l’Italia nuda, come sempre, l’Italia con gli occhi aperti nella notte triste, viva l’Italia, l’Italia che resiste”.

Il contrasto tra l’incedere musicale maestoso e l’amarezza contenuta in certe frasi rendeva quel brano perfetto per rappresentare la posizione e i sentimenti verso il Paese di me come di tanti altri della mia generazione.

Quindi forse si poteva parlare di Italia e di bandiere anche “da sinistra”, proclamando un affetto e una appartenenza e nello stesso tempo facendosi portatori di una critica… se lo faceva De Gregori… “l’Italia tutta intera”, poi, era una petizione di principio che sarebbe risultata tristemente attuale per molto tempo anche dopo.

Canticchio nella testa quella canzone e arrivo alla agognata fontanella in fondo a viale Belvedere, mi piazzo con la testa sotto il getto e mi inebetisco di sollievo per un po’, per poi riprendere la mia corsa in direzione opposta.

Ricordo che, dopo De Gregori, fu Franco Battiato il secondo a scardinare le mie resistenze relative all’uso di certi termini, svecchiandoli e sdoganandone l’utilizzo. La canzone già dal titolo proponeva una operazione spericolata: affiancare alla parola “patria” (che ancora suonava enfatica alle mie orecchie) l’aggettivo “povera”. Era una dolorosa rivendicazione di possesso, era un lamento per una terra “schiacciata dagli abusi del potere”, era una potente invettiva contro “i governanti, le iene negli stadi e quelle dei giornali”.

Un’idea di patria che sembrava essere tanto più forte quanto più essa era vituperata; tutt’altro che trionfalistica e tronfia.

E’ stato insomma un lungo percorso personale, sulla base di elementi culturali e affettivi, caratterizzato anche da altre tappe (le letture sul caso Moro, le soste presso la sala d’attesa della stazione di Bologna, il pellegrinaggio in via Caetani, la tappa a Capaci presso il monumento dedicato a Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani) che mi ha portato, all’inizio della fase del lockdown, a riappropriarmi del tricolore e ad esporlo, tornando finalmente a sentirlo come, mio, nostro: una res publica.

Esporlo per rendere omaggio a una povera patria, martoriata in questo caso da un virus (se non anche dall’incompetenza di alcuni amministratori, probabilmente) ma che resiste.

Un riconoscere e un fare appello ad una propria identità comune di lingua, storia e cultura, una condivisione, uno spartirsi una sorte non in un momento celebrativo, in una apoteosi, ma nel corso di un lutto, di una crisi devastante.

Il tutto senza retorica, ma con affetto, nel desiderio di consolidare con un piccolo gesto un legame, una appartenenza che ci accomuna e che può darci un po’ di forza.

Affaticatissimo percorro gli ultimi metri prima di fermarmi sotto casa.

Alzo gli occhi e guardo la bandiera.

No, non garrisce orgogliosamente, sbatacchia stancamente.

Ma mi sembra bella lo stesso.

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