Indiscusso
28 Maggio 2020

Perché le scuole vanno riaperte a settembre

di Marzia Marchi | 4 min

Trovo sconcertante che a fine maggio un milione e mezzo di docenti e circa otto milioni di studenti siano lasciati senza risposte sul loro destino professionale ma soprattutto di vita, per quanto riguarda bambini, ragazzi e giovani.

Ci stiamo scervellando sulla metratura tra un ombrellone e l’altro e stiamo perdendo di vista quella che dovrebbe essere la preoccupazione principale di ogni Paese, la formazione della generazione futura.

Inutile stare a girarci intorno: la didattica a distanza è stata un tampone ad un’emergenza, il cerotto sulla ferita, che però continua a sanguinare e va affrontata all’origine.

Il sistema dell’Istruzione pubblica, deteriorato da anni di politiche personalistiche del Ministro di turno e semi affossato dalla paradossale riforma della “buona scuola” renziana, sta mostrando tutti i propri limiti, nell’incapacità di riorganizzarsi di fronte ad un evento che potrebbe essere solo l’inizio di una nuova condizione cui ci dovremo abituare.

Ormai tutti gli esperti, medici o virologi che siano, concordano che la vita dovrà fare i conti con i rischi delle epidemie e se l’economia deve adattarsi a questa condizione, deve farlo più che mai la scuola che non può essere confinata dietro lo schermo di un computer o peggio di uno smartphone!

Nel bene o nel male la scuola è veramente una palestra di vita, attraverso la quale passa la formazione civile di un Paese.

Per aprire a settembre e per abituarsi a fare scuola in situazioni di rischio epidemico servono quindi due cose molto semplici e assolutamente fattibili: più insegnanti e più spazi! Quello che una volta avevamo, come i posti letto, e che abbiamo distrutto!

In base al principio dell’ottimizzazione dei costi sono state chiuse le piccole scuole di paese, sono stati accorpati gli istituti e dimezzati gli insegnanti.

Posso testimoniarlo con i miei ventiquattro anni di insegnamento, nei quali ho visto perdere ore di compresenza e assistito alla chiusura di piccoli plessi nei quali ho insegnato. Abbiamo bisogno di stabilizzare insegnanti che a cinquant’anni vivono la scuola da venti come precari e non c’è merito da testare che giustifichi il rischio della loro esclusione da un mondo in cui sono stati finora protagonisti. Abbiamo bisogno anche di immissione di insegnanti giovani lasciando andare fuori il personale di oltre sessant’anni.

Abbiamo gap mostruosi di età tra studenti e docenti in un mondo che si muove più velocemente della nostra capacità di comprenderlo. Ma ora occorre riprogettare l’universo dell’istruzione e della formazione, dall’infanzia all’università. Investire danaro e competenze.

Da qui a settembre occorre recuperare gli spazi dismessi delle vecchie scuole, adattare nuovi spazi – che siano teatri, palestre, sale fieristiche, perfino stadi mi vien da dire – alla nuova didattica che insegnanti, adeguatamente formati, possano mettere in campo in presenza, con di fronte una platea di studenti in carne ed ossa, educata e consapevole ad affrontare i rischi pandemici, come dovrebbe essere accaduto in questi mesi di lockdown.

Invece di perdere tempo a selezionare un presunto merito di insegnanti già al lavoro da anni, in farraginosi concorsi che a settembre rischiano di lasciare sguarnite le scuole, si formino questi insegnanti alla gestione di una didattica all’aperto, una didattica capace di fare scuola anche al di fuori dello spazio tradizionale dell’edificio scolastico. Va ribaltato infatti il concetto di educazione attraverso test, quiz e tabulati Invalsi e recuperata la dimensione personale e relazionale al fine della creazione di una coscienza collettiva della responsabilità, della solidarietà e della formazione, intesa quest’ultima come solida struttura di conoscenze che si sperimentano sul campo.

La didattica a distanza è un palliativo che se da un lato ha permesso di non abbandonare gli studenti al loro destino, dall’altro ha dimostrato la grande flessibilità educativa dei docenti, i quali in pochi mesi hanno imparato a riprogettare il loro modo di insegnare.

Ora questa flessibilità va recuperata per progettare, ancora una volta, una nuova didattica che certo non butta alle ortiche l’aspetto tecnologico ma che ne fa un uso strumentale e non il proprio paradigma.

Qualunque insegnante di mezza età, e sono – ahimè – la maggioranza, sa che in un prato si possono fare lezioni di almeno quattro discipline per almeno tre ordini di scuola: dalle scienze all’arte, dalle lingue alla fisica; nelle palestre si può ginnastica ma anche studiare la fisica; in un teatro si può insegnare dalla letteratura alla storia, alle lingue. Questo è il travaso di sapere che dovrebbe avvenire dalle vecchie alle nuove generazioni di insegnanti, così come l’incontrario è avvenuto in questi mesi in cui noi – stagionati insegnanti – abbiamo appreso dai colleghi più giovani ad usare videochiamate, screencast, xbox e via con tutto il patrimonio di strumenti digitali a disposizione.

I mesi non sono molti e in mezzo ci starebbero pure le meritate ferie, visto che la didattica a distanza ha comportato per i docenti quasi un impegno H24. Però penso che pur di tornare a fare scuola in presenza i docenti siano disposti a “sacrificare” una parte della loro estate per riorganizzare quegli ambienti di apprendimento che finora sono stati solo belle citazioni sui libri di pedagogia. Sarebbe davvero il caso di mettere mano a tutti questi ambienti vecchi e malandati (chiunque frequenti la scuole sa di cosa parlo) e a quelli nuovi da allestire o consentire. Amministrazioni collaboranti, of course!

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