Attualità
30 Ottobre 2019

Marattin: la sicurezza della rete, proprio come l’economia, va presa sul serio

di Ruggero Veronese | 6 min

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Non sono mai stato tra i detrattori di Luigi Marattin, a cui riconosco una notevole riduzione del debito pubblico quando era assessore a Ferrara e una schiettezza – alcuni direbbero arroganza – che sicuramente preferisco agli eccessi diplomatici di altri politici. Oggi però non sono qui a fargli i complimenti, tutt’altro. Ho letto da poco della battaglia che sta lanciando e sono rimasto a dir poco basito. Marattin infatti propone l’obbligo di fornire un documento di identità per accedere ai social network, come spiega in questo post.

https://www.facebook.com/260257847775408/posts/717763368691518?sfns=mo

Detta così, la proposta potrebbe sembrare molto sensata. Anch’io scrivendo su un quotidiano ho sviluppato un odio viscerale per gli ‘haters’ che seminano insulti e falsità sulla rete. Da queste parti come sapete non siamo affatto immuni al problema, e nemmeno agli insulti verso gli stessi giornalisti. Anche io credo che gli utenti dei social debbano essere responsabili a livello legale delle proprie affermazioni, così come lo sono redattori e politici.

Mi stupisce però che Marattin non si ponga neanche di striscio uno dei più grandi problemi della nostra epoca. Il fatto cioè che da circa una decina d’anni un limitato numero di aziende private ha sempre più accesso ai dati personali di miliardi di persone su tutto il pianeta, usati quotidianamente non solo a fini di targetizzazione pubblicitaria e promozione commerciale ma anche – cosa ancora più preoccupante – di propaganda politica.

Non si tratta di una questione da poco. Per chi se lo fosse perso, il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg è stato sottoposto proprio nei giorni scorsi a una sorta di terzo grado davanti al Congresso degli Usa per chiarire l’operato e la posizione di Facebook riguardo ai vari scandali legati all’uso dei dati personali degli utenti. Come il caso di Cambridge Analytica, società di consulenza che ha cercato di influenzare (e in che misura ci sia riuscita resterà sempre un mistero) le ultime elezioni presidenziali americane, grazie all’accesso ai dati degli utenti fornitole dallo stesso social network.

Anche se non mi è piaciuto granché il tono da Santa Inquisizione di certi deputati democratici verso Zuckerberg, è indubbio che la questione è più che mai aperta e attuale. Forse per la prima volta nella storia umana, aziende private possono permettersi di sedersi a trattate con i governi delle principali potenze mondiali, ben consapevoli di avere il coltello saldamente dalla parte del manico. Che ci piaccia o meno ammetterlo, in questa epoca chi controlla i social controlla la democrazia. O se non altro è in grado più di chiunque altro di influenzarla e indirizzarla.

E tutto questo senza che queste aziende conoscano la reale identità delle persone. Un utente può scegliere di chiamarsi Wolverine o Batman, ma nel momento in cui esprime una certa opinione o effettua una certa ricerca avrà già rivelato qualcosa di sé. E quindi potrà essere ‘targettizzato’ e raggiunto da messaggi e contenuti personalizzati. Potrebbe trattarsi di un semplice consiglio per un trapianto di capelli, se ha inserito una foto stempiata, ma anche della peggiore e più ingannevole propaganda politica, se rientra nella tipologia di utente che qualcuno trova sensibile a un certo tipo di messaggio.

Tutto questo senza obbligo di registrazione con un documento di identità. Quindi senza considerare cosa succederebbe se, come Marattin di fatto propone, quelle aziende avessero accesso a tutti i dati dei cittadini iscritti all’anagrafe: nome, cognome, età, indirizzo, luogo di nascita, professione, stato civile, eventuali segni particolari o disabilità, tratti fisici e somatici. Tutti i dati contenuti nelle anagrafi pubbliche regalati o rivelati (è la stessa cosa) a un gruppo di aziende private. Per libera scelta dell’utente, vero, ma è davvero possibile scegliere, nella nostra epoca, di vivere al di fuori della rete? Per molti di noi, per esigenze personali e professionali, probabilmente no. Una libertà di scelta più teorica che reale, diciamo.

E nel suo voler punire i maleducati di Facebook e Twitter, Marattin trascura anche un altro dato di fatto: ormai da qualche anno il confine tra i social network e il resto della rete è ormai sfumato e confuso. Il sistema Disqus che si usa per commentare in questo sito è un social network? Se l’obiettivo è prevenire ogni potenziale insulto, probabilmente sì. Quindi nella prospettiva di Marattin occorrerà richiedere una registrazione con documento di identità anche per i commenti a Estense.com. Ogni piattaforma dove gli utenti possono inviare e ricevere messaggi (e quindi anche insulti o falsità) può essere definita un social network: Linkedin, Google con la sua piattaforma Youtube, Instagram, Telegram, Twitch, Reddit e centinaia di altre realtà più o meno di nicchia. Fino ad arrivare a tutte le migliaia di videogiochi online dove è possibile scambiarsi messaggi in pubblico, frequentati anche da centinaia di migliaia (per stare in Italia) di minorenni: iniziamo a chiedere il documento di identità anche ai bambini di dieci anni che giocano a Fortnite? Ci rendiamo conto a cosa li esponiamo?

Tutto questo Marattin non lo spiega. Non si inoltra in questi dettagli tecnici, o meglio non affronta alcun dettaglio tecnico. Ma questa, esattamente come quando lo stesso Marattin discute di economia e giustamente se la prende con chi ne parla a vanvera, è una questione da affrontare innanzitutto sul piano tecnico. Possono davvero essere sicure le copie dei nostri documenti di identità nei server delle aziende private? Che utilizzo ne faranno le compagnie in questione? Chi e in che modo effettuerà i controlli per verificare se quei documenti sono reali o falsificati? Chi ci assicurerà che il governo stesso in futuro non inizierà, come già si inizia a studiare in Cina, a incrociare i dati dei social network collegati a identità reali per esprimere valutazioni sulla vita privata dei cittadini? Quesiti che potrebbero andare avanti a lungo, quando si abbatte il confine tra procedure pubbliche e controllo privato.

Mi sembra insomma che nella proposta di Marattin ci sia più una foga vendicativa verso chi ha ricoperto lui e i suoi compagni di partito (Renzi e Boschi probabilmente appoggiano l’idea) di illazioni e insulti personali, che una vera e lucida strategia per migliorare il web. O che se non altro affronti la questione solo da una limitata prospettiva legata all’attività politica, ignorando tutta la complessità di un tema con cui dovremo fare i conti per le prossime generazioni.

Non voglio sottovalutare il problema delle diffamazioni e delle oscenità in rete, ma per prevenire questi fenomeni esistono già appositi reati nel codice penale e sistemi per rintracciarne gli autori attraverso la polizia postale e il controllo degli indirizzi IP. Si può pensare di rendere questi strumenti più rapidi ed efficaci, imporre alle aziende collaborazione totale e una reale responsabilità di controllo, invece di coinvolgere la totalità degli utenti di Internet in una schedatura collettiva.
La protezione dei dati personali in rete è invece un problema epocale, che oggi non ha ancora un barlume di soluzione e che si ingigantisce ogni giorno di più: forse non è il caso di aggravarlo ulteriormente. Viviamo in un’epoca in cui la sicurezza e l’indipendenza della rete, proprio come i temi economici sicuramente più noti a Marattin, sono questioni maledettamente serie.

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