Politica
7 Ottobre 2019
A Internazionale una riflessione su come trovare un punto di incontro tra le azioni delle ong e dei governi nelle zone di conflitto

Tra sicurezza e solidarietà: la difficile ma indispensabile ricerca di equilibrio

di Ruggero Veronese | 3 min

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“La ‘realpolitik’ non è una cosa che si twitta: chi ne parla spesso e volentieri non sa nemmeno cosa sia”: nelle parole di Alessandro Politi della Nato Defense College Foundation sono racchiusi con ogni probabilità anni di scontri e dibattiti sul difficilissimo rapporto tra misure di sicurezza e forme di assistenza umanitaria che si vive nella nostra epoca.

Una questione che spesso dal grande pubblico viene vissuta in un’ottica di schieramento e senza troppe sfumature – ad esempio quando si abbracciano le posizioni delle Ong da una parte o dei governi nazionali dall’altra in materia di soccorsi in mare -, ma che per chi si occupa quotidianamente di questi problemi viene vista e studiata in un’ottica decisamente diversa.

E infatti non è un caso se durante l’incontro di Internazionale ‘Il costo della sicurezza’, che oltre a Politi vede sul palco del cinema Apollo Marta Canas di Medici Senza Frontiere, Hugo Slim del comitato internazionale Croce Rossa e la giornalista Tiziana Ferrario, una delle parole che viene ripetuta più spesso è “equilibrio”.

Un equilibrio che si deve creare tra due esigenze tanto comprensibili quanto legittime: da un lato il diritto e il dovere di prestare soccorso alle popolazioni che vivono in condizioni di guerra, sistematica violenza o povertà, dall’altro la necessità delle nazioni di proteggere il proprio sistema sociale, e quindi di prevenire o combattere i fenomeni sovversivi o terroristici.

Due esigenze che però si vengono spesso a scontrare l’una con l’altra, soprattutto quando ci si trova a che fare con nazioni dove intere regioni o territori sono in mano a gruppi estremistici o in qualche modo in rivolta contro il proprio governo. Le esperienze raccontate da Canas e Slim rendono bene l’idea della difficoltà con cui si trovano a che fare le organizzazioni umanitarie: in paesi come Niger, Nigeria o Arabia Saudita il governo ha bloccato l’accesso a determinate aree alle ong, se non accompagnate dagli stessi militari o funzionari governativi.

Ma così facendo le organizzazioni perdono quella neutralità operativa che è indispensabile sia per poter prestare soccorso alle popolazioni, sia per non far correre più rischi del necessario (dal momento che il “rischio zero”, come spiega Slim, “non può mai esistere”) ai propri operatori sul campo.

E non è una soluzione neanche l’ingresso delle stesse parti in causa (governi o gruppi ribelli) nelle azioni di soccorso umanitario, che necessariamente finirebbero per avere un ‘doppio fine’ a livello di propaganda politica. I relatori della conferenza citano numerosi casi in cui la ‘generosità’ dei soccorritori era semplicemente indirizzata a “conquistare i cuori e le menti dei popoli in difficoltà”, ad esempio nell’Iraq post-Saddam che cadde velocemente in mano alla propaganda di uno Stato Islamico che astutamente si mostrò più vicino alle necessità quotidiane degli iracheni.

La strada da percorrere sta secondo i protagonisti della conferenza in una maggiore regolamentazione delle operazioni umanitarie nei teatri di guerra, che dia la possibilità alle ong di aiutare chi è in difficoltà mantenendo una sorta di ‘equidistanza’ tra le parti in lotta e facendo sì che l’azione umanitaria non si trasformi in un altro terreno di scontro tra chi è già in guerra. Ma per farlo occorre un impegno ad ampio raggio fatto di patti, accordi e molto impegno da parte degli enti sovranazionali, che devono convincere le singole nazioni che la neutralità dei soccorritori va nell’interesse di tutti i popoli.

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